La festa liturgica della Santa Famiglia ci permette di cogliere una dimensione importante, che è racchiusa nel mistero del Natale, il mistero dell’incarnazione. Infatti, parlare di 'incarnazione' vuol dire riconoscere che il Figlio di Dio ha acconsentito di condividere sino in fondo l’ordinarietà della condizione umana, accettando di entrare dentro gli aspetti di ricchezza e di limite che appartengono all’esperienza quotidiana. È proprio questo che balza agli occhi con immediatezza, nel momento in cui posiamo lo sguardo sulla realtà della famiglia di Nazaret. Mettendoci di fronte a tale realtà, noi vediamo appunto il Figlio di Dio che ha preso il volto del figlio di Maria e di Giuseppe, vediamo il Signore della storia che è disposto a misurarsi come tutti con le promesse e i problemi, che segnano sempre le nostre storie. Dunque, dopo che la vicenda di Maria e Giuseppe grazie alla presenza di Gesù è stata 'abitata' da Dio, qualunque nostra vicenda, con le sue luci e le sue ombre, diventa davvero lo spazio per incontrare il Padre che è nei cieli e per aprirsi al suo dono di salvezza. Come si legge nella Traccia per il cammino verso il quinto Convegno ecclesiale nazionale, che si celebrerà a Firenze nel 2015, «l’uomo è la periferia presso la quale Dio si reca in Gesù Cristo». Dal momento in cui il Figlio di Dio è diventato il figlio di Maria e di Giuseppe e ha preso il nome di 'Nazareno', non possiamo più pensare che per incontrare Dio ed entrare in comunione con Lui sia necessario fuggire dalla situazione concreta in cui ci ritroviamo. Non possiamo più pensare che per realizzare le opere di Dio sia necessario trascurare o addirittura mettere da parte le opere che riempiono la nostra esperienza quotidiana. Certo, purché tutto sia compiuto con quella fede, con quella speranza e con quell’amore, che Gesù ha vissuto per primo, in specie proprio negli anni della sua esistenza nascosta a Nazaret. I vangeli canonici ci raccontano assai poco di quel periodo, concentrati come sono sul momento decisivo dell’attività pubblica di Cristo. Eppure non c’è dubbio che gli anni di Nazaret furono già a tutti gli effetti «tempo di incarnazione», ossia furono il tempo in cui Gesù ha imparato giorno dopo giorno a esprimere nella grammatica della nostra condizione umana quella Parola di Dio, che è Lui stesso in persona. Proprio in questo modo, Gesù ci ha mostrato una volta per tutte che per fare un’autentica, piena esperienza di Dio occorre immergersi sino in fondo, addirittura sino a rimanere nascosti, dentro le realtà normalissime della vita comune. Tanto che lo stesso annuncio del Regno, durante l’attività pubblica, sarebbe sembrato poco credibile se alle spalle non ci fosse stato questo tempo di condivisione paziente, da parte di Gesù, delle cose che appartengono al corso ordinario del vivere. In particolare, alla scuola di Nazaret scopriamo che la vita familiare è la 'frontiera' privilegiata, in cui Dio ci da appuntamento per incontrarsi con noi. In effetti, è proprio in famiglia che si intrecciano le relazioni più intense e più decisive, quelle che segnano con una profondità senza paragone il nostro modo di essere al mondo. In definitiva, le tante forme della nostra vita personale e sociale sono plasmate prima di tutto nel contesto 'domestico', dentro la rete dei legami affettivi tra sposo e sposa, madre e padre, fratello e sorella. Dunque essere sposi, essere genitori, essere figli in una prospettiva di fede vuol dire disporsi a testimoniare che in effetti Dio c’entra appunto con gli aspetti più normali, più comuni del vivere: c’entra, nel senso che il rapporto con Lui permette di portare dentro questi aspetti una pienezza e una ricchezza d’umanità altrimenti impensabile. Se nelle nostre case si saprà generare questo umanesimo dell’incarnazione, allora potrà ripetersi ancora oggi il miracolo di Nazaret: il miracolo di un Dio che ci da appuntamento là dove siamo, per regalarci il dono sorprendente della sua novità che salva e trasfigura.