L’anniversario non poteva essere celebrato in modo più solenne. A un anno dall’avvio del piano di acquisto di titoli di Stato e di iniezione di moneta sui mercati, il cosiddetto
quantitative easing, nello sforzo di rianimare l’inflazione e la crescita la Banca centrale europea guidata da Mario Draghi ha deciso di alzare ancora la posta.
Molti, per rendere l’idea di cosa è stato messo sul tavolo, parlano di bazooka, di bomba nucleare, ma il gergo bellico in questa fase non è né felice né azzeccato. Forse è più corretto parlare di maxi stimoli, super vitamine, se non di "doping" monetario. Non perché l’intervento in sé non sia necessario, anzi, ma perché i suoi effetti non sono scontati e in ogni caso possono produrre conseguenze imprevedibili su un organismo fragile e debilitato come è in questo momento l’economia europea.
Per capire cosa c’è in gioco occorre fare una premessa: per quanto ne dicano i banchieri tedeschi, se l’euro oggi è ancora in piedi lo si deve essenzialmente al coraggio e alla decisione di Draghi. Il
quantitative easing ha risolto la crisi degli spread ed evitato che la bomba dei debiti sovrani, esplodendo, mandasse a gambe all’aria i Paesi con i conti pubblici meno virtuosi e facesse crollare l’intero edificio dell’Eurozona. Quello che invece il
qe non è riuscito a fare è dare un po’ di fiato all’inflazione, in modo da rendere più sostenibili i debiti e incentivare i consumi, e far ripartire l’economia. Questo fallimento, tuttavia, non è imputabile alla Bce e a Draghi, quanto a due fattori: il contesto internazionale problematico e la fragilità delle politiche economiche dei governi.
Le nuove misure messe in campo ieri sono oggettivamente potenti. Il tasso di interesse base è stato azzerato, rendendo ancora meno costoso prendere soldi in prestito; i tassi sui depositi delle banche presso la Bce sono stati tagliati a -0,4%, così da rendere ancora più oneroso lasciare i soldi sotto il materasso a Francoforte; con il nuovo piano di rifinanziamento "Tltro" a tassi negativi, poi, la Banca centrale di fatto pagherà gli istituti per concedere credito; la Bce, inoltre, acquisterà ancora più titoli di Stato, 80 miliardi di euro al mese, e persino obbligazioni di aziende meritorie. Draghi è stato chiaro: lo choc deve servire a spingere i prestiti e quindi a sostenere la ripresa, durerà quanto serve, ma non in eterno.
Tutto bene, dunque? Dipende. Il piano è stato annunciato nel giorno in cui Francoforte ha tagliato dall’1,7% all’1,4% le previsioni di crescita per l’Europa nel 2016, e dall’1% allo 0,1% le attese di inflazione. Non è un caso che le Borse, dopo una prima fiammata euforica, abbiano ripiegato chiudendo in territorio negativo. Quello con cui ci stiamo confrontando è uno scenario inedito, nel quale per usare le parole di Draghi di un mese fa, ci sono «forze dell’economia globale che concorrono a tenere bassa l’inflazione» e di fatto a rendere meno efficace la politica monetaria, anche in termini di impatto sulla crescita. Una di queste forze, sicuramente la più influente in questa fase storica, prima della contrazione dei prezzi delle materie prime, è la questione demografica.
Pochi giorni fa la numero uno del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, ha lanciato un vero e proprio allarme riferendosi al calo delle nascite e all’invecchiamento della popolazione nelle maggiori economie avanzate europee e in parte di quelle emergenti. Un cambiamento epocale, capace di incidere sull’inflazione, comprimere la crescita e che, in assenza di interventi decisi da parte dei governi, potrà avere «un pesante impatto sui bilanci sia del settore pubblico che di quello privato, minando la stabilità finanziaria».Sempre in questi giorni un rapporto dell’agenzia di rating Standard& Poor’s ha messo in guardia gli Stati Uniti stimando che proprio l’invecchiamento della popolazione americana unito alla natalità contenuta ridurrà il Pil dello 0,8% l’anno nei prossimi otto anni. Ma la cosa più preoccupante è che, come si legge nel documento, grazie alla più consistente generazione dei
Millennials e al contributo dell’immigrazione, gli Usa si trovano in condizioni assai migliori di Paesi come Giappone, Cina, Corea del Sud, Germania, Russia, Italia e Spagna. La Banca centrale europea, in buona sostanza, sta facendo tutto quello che è nelle sue possibilità, e anche di più, ma la dinamica della popolazione insieme ad altri fattori di base rischiano di rendere le sue armi spuntate. È per questo che il vero senso della mossa di Draghi di ieri è una chiamata, quasi un ultimatum, all’assunzione di responsabilità da parte dei governi europei. Ciò che sembra mancare del tutto, in questa fase, è una visione che trasmetta alle imprese e soprattutto alle famiglie la sensazione che le riforme e gli interventi a loro favore siano inseriti in una prospettiva stabile, coerente e di lungo periodo, capace di creare un contesto di fiducia strutturale nel futuro, e non rispondano invece a uno sterile e limitato calcolo di convenienza elettorale. Un messaggio che in italiano suona ancora più squillante. In assenza di una svolta netta in questa direzione allora sì che lo choc proposto da Draghi rischierebbe di ridursi a una inefficace e pericolosa forma di 'doping' monetario.