Sono giorni importanti in sede europea per la definizione della strategia green in risposta alla sfida americana, l’Inflation Reduction Act di Joe Biden ma non solo, con l’investimento di una quantità ingente di risorse nella transizione ecologica, abbinando a questa strategia la preferenza per aziende Usa e dunque implicitamente degli aiuti di Stato che rendono le aziede Ue meno competitive nel settore.
Non c’è dubbio che una transizione ecologica giusta e socialmente sostenibile sia la direzione obbligata per il futuro del nostro pianeta. La strategia chiave per realizzarla è aumentare più rapidamente possibile la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili per realizzare l’obiettivo di emissioni zero entro il 2050 (circa il 73% delle emissioni dipende dal modo in cui produciamo energia). La svolta verso le rinnovabili non conviene soltanto per motivi climatici. Come già ricordato tante volte, è anche il modo meno caro e più conveniente di produrre energia (non avremmo avuto il caro bolletta, l’aumento dei costi delle imprese e l’inflazione senza la dipendenza dalle fonti fossili) ed è la via per realizzare finalmente l’indipendenza energetica. Dipendere momento per momento nell’erogazione dell’energia da parte dei Paesi produttori di gas e petrolio non p comparabile con l’esigenza di costruire impianti, turbine e pannelli che poi utilizzeremo per decenni per valorizzare fonti energetiche disponibili liberamente come il vento e il sole. È senz’altro vero che su minerali rari e produzione delle rinnovabili la Cina ha oggi una posizione di vantaggio ma, mentre è impossibile diventare Paese petrolifero, si può decidere che diventa strategico avere impianti produttivi e giacimenti e trasformazione di minerali rari come si sta già facendo a livello nazionale ed europeo.
A che punto siamo? La Ue si è data l’obiettivo di arrivare nel 2030 al 40% di energia complessivamente prodotta da rinnovabili mentre oggi si trova circa al 22% (con un picco del 60% raggiunto dalla Svezia). La guerra in Ucraina ha aumentato la consapevolezza dell’importanza di quest’obiettivo anche in chiave d’indipendenza strategica. Ora, infatti, si discute la possibilità di portare al 45% l’obiettivo del 2030.
Tornando alla sfida con gli Usa, l’oggetto della discussione in sede europea è l’entità e le modalità della risposta comune. Si parla di 350 miliardi di euro, ma la questione fondamentale è se si tratterà di una riprogrammazione di fondi già esistenti oppure di un nuovo fondo sovrano che creerà nuovo debito europeo. La risposta peggiore sarebbe quella del via libera agli aiuti nazionali alle imprese con i Paesi membri che procedono in ordine sparso e con regole non chiare, alimentando una concorrenza interna e favorendo quelli che hanno maggiore capienza fiscale (e debiti più bassi). Mancherebbe in questo caso tutta la forza delle economie di scala che un fondo sovrano europeo potrebbe dare.
Uno dei settori chiave dove questa risposta dovrebbe indirizzarsi è proprio quello dell’efficientamento energetico degli edifici che rappresenta di per sé una quota preponderante delle emissioni e un settore dove i privati non si muoverebbero mai da soli senza incentivi pubblici. La storia del superbonus testimonia come gli interventi solo nazionali sono assai costosi e possono far finire in situazioni di stallo (l’ingolfamento del mercato della cessione dei crediti d’imposta, ad esempio). Senza un importante investimento europeo non si vede come in questo settore sarebbe possibile l’obiettivo prefigurato dalla European Performance Building Directive (Epbd) che nell’attuale bozza prevede il passaggio di tutti gli edifici almeno in classe E entro il 2030 e in classe D entro il 2033 (nelle grandi città italiane circa il 60% sono in classi energetiche G e F, meno efficienti di queste).
Un altro incentivo chiave dovrebbe essere quello del finanziamento dei Contract for carbon differences che premiano la riduzione di emissioni ottenuta dalle imprese e sono dunque un importante stimolo all’innovazione tecnologica verso la transizione ecologica. Mai come oggi la celebre frase di un padre fondatore come Jean Monnet – « L’Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni apportate a queste crisi» – appare di assoluta attualità. La pandemia, la guerra in Ucraina e la sfida climatica possono diventare le crisi che hanno fatto veramente nascere una nuova politica fiscale comune europea. Dipende dall’adeguatezza della risposta di questi giorni e dei prossimi mesi.