giovedì 10 marzo 2022
Senza risultati apparenti i primi colloqui ad alto livello tra Mosca e Kiev. Continua l'agonia di Mariupol e ci si può chiedere quale debba essere la linea da tenere di fronte alla atrocità sui civili
Quindicesimo giorno di guerra. Il dilemma dell'Occidente davanti alle atrocità
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Il quindicesimo giorno di guerra in Ucraina segnala l'apparente fallimento dei primi negoziati ad alto livello fra Mosca e Kiev. Ad Antalya, in Turchia, sotto gli auspici del presidente Erdogan, i ministri degli Esteri hanno riaffermato le proprie posizioni, senza la vera volontà di fare avanzare la trattativa. Forse era un passo che si doveva compiere per poi giungere a un vertice tra leader, rispetto al quale il cauto Lavrov si è detto possibilista. Si tornerà dunque in Bielorussia per un nuovo round di colloqui. La situazione sul campo però si sta facendo ancor più drammatica e un eventuale accordo non potrà non risentire dell'offensiva sulle città che le forze russe stanno intensificando, con il risultato di colpire indiscriminatamente la popolazione.

Uno dei temi chiave per la crisi, il giorno dopo l'attacco all'ospedale pediatrico di Mariupol, che ha fatto almeno tre morti e decine di feriti, è proprio l'atteggiamento dell'alleanza occidentale. Unione Europea e Stati Uniti non sono parte attiva del conflitto, ma non sono, com'è ovvio, nemmeno neutrali in senso pieno. Sostengono l'Ucraina con la fornitura di armi e cercano di indebolire la Russia con pesanti sanzioni economiche. Possiamo dire che stanno dalla parte giusta, ma questo non basta per rendere il loro operato buono ed efficace. Pensiamo alla condanna unanime per l'atroce gesto di bombardare un reparto di maternità (con i - pochi - dubbi che ancora rimangono sulla dinamica dei fatti). La vice-presidente americana Kamala Harris ha parlato esplicitamente di "crimini di guerra" russi e di un'indagine che "dovrebbe assolutamente esserci". Ma a Mariupol la situazione sta peggiorando, se possibile. Altri colpi di artiglieria cadono tra le case, la gente terrorizzata è senza più cibo né vie di fuga, come denuncia anche la Croce Rossa Internazionale.

Famiglie in fuga dall'Ucraina

Famiglie in fuga dall'Ucraina - Ansa / Filippo Venezia

Che fare davanti al deliberato accanirsi sui civili? Consideriamo che cosa ha fatto la Nato in tempi recenti. Per esempio, di fronte alle violenze della Serbia sui civili kosovari alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. Si convocò una conferenza di pace, ma al rifiuto del presidente Milosevic di garantire la sicurezza della provincia che chiedeva autonomia, le forze dell'Alleanza atlantica bombardarono obiettivi militari serbi (e alcuni anche civili, per errore), compresi raid a Belgrado, finché dopo tre mesi fu accettato un piano di pace internazionale.

In Libia, nel 2011, durante la prima guerra civile libica, l'Onu aveva decretato una zona di non sorvolo per garantire l'incolumità della popolazione stretta tra le forze lealiste di Gheddafi e i ribelli. Il mancato rispetto di essa provocò l'iniziale intervento militare diretto della Francia, seguito pochi giorni dopo da un'operazione Nato che portò alla caduta del leader libico.

Indipendentemente dall'esito politico di lungo periodo di quelle due azioni (certamente non ottimale), ciò che fece scattare l'uso della forza fu la massiccia, palese e ripetuta azione violenta sui civili da parte dei belligeranti. Oggi, in Ucraina, la situazione non sembra molto diversa. Ma ben differente è il regime da colpire. Serbia e Libia erano Paesi che non potevano organizzare una risposta armata rilevante. La Russia, invece, è una potenza nucleare decisa a reagire contro ogni ingerenza esterna nel conflitto che ha avviato oltre confine.

Muovere guerra "difensiva" è sempre l'ultima opzione, ma possiamo chiederci se stiamo adottando due standard morali diseguali in base agli alti rischi che correremmo nell'intervenire a tutela degli inermi abitati di Mariupol rispetto agli scarsi pericoli sperimentanti nel proteggere Pristina o Bengasi. Solidarietà diffusa, rifornimenti di armi, sostegno umanitario e sanzioni a Mosca possono risultare una modalità altrettanto o più efficace, meno tragica e più responsabile di un attacco aereo che scatenerebbe la rappresaglia russa. Tuttavia, davanti ai massacri di donne e bambini, non minacciare nemmeno una ritorsione bellica, non è una dimostrazione di impotenza e forse anche di paura e di calcolo, per la quale dovremmo avere qualche rimorso di coscienza? Quali sono le condizioni e i confini della cosiddetta ingerenza umanitaria?

Proclamare principi e valori è doveroso e lodevole, impegnarsi e pagare di persona per la loro concreta realizzazione vale di più. I singoli cittadini possono fare qualcosa su vari livelli. I Paesi e le organizzazioni internazionali, principali attori nella crisi attuale, rischiano di essere incoerenti, ipocriti o cinici. La quindicesima giornata di guerra in Ucraina ci consegna anche questi amari interrogativi, che non sembrano avere oggi una chiara e univoca risposta.





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