Quello che è preoccupante nella moda geopolitica che sta tornando in auge è la natura tutta strategica e militare di questa nuova attenzione. Sembra che a tutti noi, digiuni di geografia, disciplina ritenuta inutile nelle scuole, sia finalmente dato di scoprire nazioni, località, enclave che prima di questa guerra ignoravamo: la Moldavia (o Moldova), la Transnistria (perfino il motore di ricerca me lo corregge, ignorandolo) le Repubbliche baltiche...
Alcuni inserti speciali di alcuni quotidiani, programmi tv costruiti come stanze dei bottoni in una guerra totale, certe sospette fonti sui social si premurano di spiegarci la geografia in base alla gittata di missili e di cannoni. Si può dire che, da questo punto di vista alla Cenerentola Italia venga imbeccato (dalla Nato e dai suoi analisti e strateghi più o meno d’occasione e di complemento) una sorta di ripasso generale di supposta 'realpolitik'.
Sull’onda della spinta distruttiva partita dalla Mosca di Vladimir Putin, siamo alla rivincita di un certo mondo militare o, meglio, militarista che si sentiva messo da parte dal giganteggiare delle emergenze climatiche e dal carattere inevitabilmente globale della crisi planetaria. I conflitti sono una maniera magnifica per demolire e riorganizzare la geografia come uno scacchiere di frontiere e di risorse, di distribuzione ineguale e di magazzini di emergenza.
A Greta, ormai maggiorenne, e ai ragazzi di Fridays For Future rispondono 'generali' (che sono anche e soprattutto politici e rappresentanti di alcuni sinedri economico-finanziari) che hanno ben altro a cui pensare che al futuro del pianeta. E a noi, 'estranei' fino a ieri alle loro logiche, salta all’occhio che le ragioni della guerra sono di un’arretratezza imperdonabile. Sono le 'solite logiche' del massacro, dell’umiliazione, della ritorsione, promettono una 'vittoria' sull’altro che è ormai impossibile in un mondo globalizzato o che è possibile solo lungo la china dell’autodistruzione.
In fin dei conti, la logica di Putin è il rimasuglio di un mondo imperial-zarista convinto che le armi siano la vera risorsa e per giunta incapace di gestire campagne che abbiano a che fare con una sofisticazione nella comunicazione (a minare fiducia e a suscitare odio, l’abbiamo visto in questi anni, hacker ed esperti di marketing del Cremlino sono bravi; a generare empatia, no). È vero anche che Putin è un perdente perché la sua immagine è diventata talmente offuscata da non convincere nessuno che non sia pagato o minacciato.
La sua stessa strategia da orso che vuole terrorizzare è nel mondo attuale grottesca, perché impedisce a ogni mossa comunicativa russa di essere credibile (prima ti terrorizzo con i miliziani ceceni e della compagnia privata Wagner e poi pretendo di dire che non c’entro con la logica e la pratica del massacro). Dall’altro lato, quello ucraino, però ciò che non lascia in pace e mobilita è lo strazio dei civili, non l’abilità dei teatranti nel conflitto. E l’altro lato, qui, significa anche il vertice degli Stati Uniti d’America, un vertice 'lontano' nei suoi strumenti e calcoli, si mostra altrettanto convinto della logica dell’orso, della bestia selvatica militare.
Ma significa pure un’Europa balbettante, incline a cambiare idea a ogni svolta della guerra e soprattutto incapace, per ora, di disallinearsi dalla logica impossibile di una possibile vittoria di una delle due parti… La sfinge cinese, infine, non offre saggezza buona per un altro e più giusto equilibrio, ma ambiguità che annunciano altri squilibri e più acute contrapposizioni. Non vincerà nessuno, questo è certo, e resterà il veleno della guerra.
Siamo alla sconfitta della geopolitica, per averla ridotta a strategia senza visione del futuro. E qui la voce che esce fuori dal coro è quella di Francesco. Il Papa è l’unico che si appella non solo alla bontà umana, ma con forza alla razionalità di una geopolitica che sia moderna, che affronti i conflitti volendoli risolvere e non inasprire. Mi verrebbe da dire che il Vaticano dovrebbe trasfor- marsi anche in una scuola di diplomazia aperta a tutti in un mondo in cui il teatrino dei politici è stato sinora desolante. Si tratta, oggi, di elaborare al più presto una vera realpolitik da non mollare nella mano militare, di costruire un Europa che sappia davvero fare da spartiacque tra l’arroganza dei potenti e le ragioni vere delle persone, delle risorse, della distribuzione della ricchezza e dell’energia. Non è facile, ma non è nemmeno difficilissimo, basta buttare via la insostenibile vecchiaia di politici anche nuovissimi, l’incapacità strutturale, legata a ignoranza e a ignavia, che impedisce di usare strumenti nuovi di mediazione. Il pacifismo, la nonviolenza sono molto più moderni di qualunque esercito, hanno strumenti molto più convincenti e costrittivi.
E non è vero che gli embarghi non servono, a determinate condizioni. Nel museo dell’Apartheid dedicato a Johannesburg a Nelson Mandela, una intera sala è riservata all’efficacia dell’embargo nella lotta contro la stupidità dei boeri e degli inglesi sudafricani che ancora volevano quel sistema discriminatorio, quella guerra tra razze. Solo che le sanzioni funzionarono perché c’era in azione nella società sudafricana, e con collegamenti in tutto il mondo, e con media attenti: un coraggioso, solidale e sempre più vasto movimento d’opposizione, quasi totalmente civile e nonviolento. Infine, la questione è che abbiamo a che fare con un mondo stravecchio che fa fatica a morire e che vuole trascinare i giovani e il mondo nuovo nella sua caduta. Siamo alla guerra simbolica tra cimeli, non più tra esseri umani. Ma a morire sono gli esseri umani. Dobbiamo avere il coraggio di rimboccarci le maniche e d’inventare una nuova geopolitica