A chi e a che cosa si riferiva Sergio Mattarella nell’auspicare, domenica, che tra le istituzioni vi sia «collaborazione, ricerca di punti comuni, condivisione delle scelte essenziali per il loro buon funzionamento e per il servizio da rendere alla comunità»?. Nella decennale dimestichezza con il suo galateo istituzionale, è ben nota la sua ritrosia a prendere parola su argomenti al centro delle libere valutazioni del Parlamento e dell’esecutivo.
È quindi probabile che il riferimento principale del Capo dello Stato fosse rivolto alla perdurante inadempienza nella nomina del giudice costituzionale. Tuttavia questo ritardo – motivo di grande amarezza, per Mattarella – è la cartina di tornasole di un malessere più ampio, di cui la vicenda dell’ennesimo scontro, con rari precedenti, fra politica e magistratura è solo l’ultimo esempio. Dunque, se il Presidente, intervenendo a Bari al Festival delle Regioni e delle Province autonome, ha richiamato che «vi sono dei momenti nella vita di ogni istituzione in cui non è possibile limitarsi ad affermare la propria visione delle cose – approfondendo solchi e contrapposizioni – ma occorre saper esercitare capacità di mediazione e di sintesi», il monito va riferito, inevitabilmente, anche a questa vicenda che apre una ferita gravissima fra istituzioni dello Stato che dovrebbero tutte avere, con lealtà e spirito collaborativo, un riferimento comune nei valori della Costituzione e dei diritti inalienabili della persona umana.
È davvero sconcertante l’incapacità del dibattito politico di restare concentrati sulla questione, preferendo alzare ognuno le proprie bandiere e le relative cortine fumogene.
Stando ai fatti, invece, prima di accusare la magistratura di fare politica, occorre ricordare che i magistrati sono chiamati a decidere del caso specifico, con un delicato inquadramento della questione “particolare” nell’“universale” delle norme poste a tutela di tutti, soprattutto dei più deboli. Certo, il coinvolgimento di un Paese aspirante all’ingresso nell’Unione, come l’Albania, nella gestione delle politiche migratorie, è stato visto con interesse anche da Bruxelles.
Ma qui la domanda è un’altra: possono essere ritenuti “Paesi sicuri” Bangladesh ed Egitto? Perché questa è la questione posta alla base del rigetto della domanda di convalida dei 12 migranti riportati in Italia per decisione del Tribunale di Roma. Sono quesiti che un magistrato deve porsi e che nulla hanno a che vedere con vere o presunte appartenenze a correnti politiche che pure vi sono, fra i magistrati, e possono portare a distorsioni più volte denunciate anche da Mattarella, ma che in questo caso non c’entrano nulla. Il tema è semmai un altro, se è accettabile o meno che sia la Corte di Giustizia dell’Unione Europea a indicare, con effetto cogente all’interno di tutti gli Stati membri, quali sono i Paesi terzi in cui i migranti corrono il rischio di condanne a morte, torture o trattamenti degradanti.
A capire la delicatezza della questione giova ricordare, come è stato fatto, il caso Regeni che chiama in causa il comportamento delle istituzioni egiziane, non di singoli funzionari o agenti infedeli, come purtroppo è avvenuto anche in Italia, ma senza che venisse coinvolto – grazie all’avvenuto accertamento dei fatti – la credibilità dello Stato italiano. Viene in mente allora la vera e propria “lezione” sulla democrazia tenuta a Trieste durante la Settimana sociale dei cattolici in Italia proprio da Mattarella.
La maggioranza dei consensi conferisce il diritto-dovere di governare. Ma il capo dello Stato citando Dossetti, don Milani e la Populorum progressio di Paolo VI, ha invitato a non rassegnarsi a una democrazia «a bassa intensità». Una sorta di assolutismo della maggioranza che rinuncia «alla tutela minima dovuta alla dignità di ogni essere umano».
Ed ecco allora il senso del richiamo. Come per il giudice costituzionale è necessario il dialogo per raggiungere la maggioranza dei tre quinti richiesta, così nella leale collaborazione fra istituzioni casi come quello creatosi con l’Albania richiederebbero ben altra condivisione prima, quando si è in tempo per evitarli, o almeno lungimiranza dopo, quando il caso è ormai esploso. Senza rifugiarsi in slogan divisivi che allontanano la soluzione. Vale nei rapporti con la magistratura, e vale nei rapporti con l’Europa. Chiedere e ottenere, di nuovo, per l’Italia incarichi di peso nel governo dell’Unione dovrebbe almeno aver sgombrato il campo da ogni tendenza ulteriore a indicare l’Europa come un’entità estranea, quasi una controparte.
L’Europa siamo noi e se ci ricorda attraverso i suoi Tribunali l’inviolabilità dei diritti dell’uomo fa solo il suo dovere. In fondo è nata proprio per questo, sulla spinta dei padri fondatori, per riportare la pace dopo due guerre devastanti e terribili violazioni dei diritti umani.