Nel 2019, la Corte costituzionale, nella sentenza 242, stabilì la non punibilità di chi «agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
La sentenza faceva riferimento al caso di dj Fabo che, tra l’altro, era sottoposto a ventilazione artificiale, anche se discontinua. Successivamente, e veniamo ai nostri giorni, il tribunale di Firenze, relativamente a un altro caso clinico, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale, come modificato dalla sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale, nella parte in cui richiede che la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio sia subordinata alla circostanza che l’aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale».
Quindi, la questione dei “trattamenti di sostegno vitale” sta diventando centrale relativamente al tema del suicidio assistito, anche se, preliminarmente a ogni discussione, va chiarito che la Corte, con la sentenza 242, non ha stabilito nessun “diritto” al suicidio ma solo un’area circoscritta di non punibilità, all’interno della quale sono considerati anche i trattamenti di sostegno vitale
Questo requisito, insieme alla patologia irreversibile, alla sofferenza giudicata intollerabile e al pieno consenso, delimita un perimetro di tolleranza, intesa come non punibilità dell’aiuto al suicidio, proprio a tutela delle persone vulnerabili, cioè i pazienti affetti da gravi patologie evolutive e invalidanti, peraltro non sempre seguiti da adeguate cure palliative.
«Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire, infatti – sempre secondo la Corte – un pre-requisito della scelta di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente», come già prefigurato dall’ordinanza della stessa Consulta n. 207 del 2018. Infatti, «si cadrebbe altrimenti – continuano i giudici costituzionali – nel paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza avere prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative».
Questa delle cure palliative è una questione poi molto seria. La legge 38 del 2010 le pone come un diritto del cittadino, il Dpcm del 2017 sui Lea (Livelli essenziali di assistenza) li include al proprio interno in diversi contesti assistenziali (ambulatori, cure domiciliari, hospice e ospedali), infine la legge di bilancio n. 197 del 2022 fissa l’obiettivo del 90% della copertura del fabbisogno sul territorio nazionale entro il 2028. Ma l’attuazione di queste norme è ancora lontana dal traguardo, se è vero, come risulta dai flussi ministeriali, che tale copertura è ancora del 36% considerando i soli pazienti oncologici e che mancano all’appello ancora molti posti letto di hospice e molte Unità di cure palliative domiciliari specialistiche.
Quindi, sembra anzitutto prioritario, come ha riconosciuto recentemente anche il Comitato nazionale per la Bioetica nel suo parere del dicembre 2023, assicurare buone cure palliative a tutti coloro che ne hanno bisogno. Riguardo poi alla questione dei “trattamenti di sostegno vitale”, bisogna ricordare che nella letteratura scientifica non se ne trova una descrizione dettagliata, meno ancora un elenco. Essi sono considerati, solitamente, da un punto di vista bioetico, soprattutto in relazione alla loro appropriatezza terapeutica, alla possibilità di un non inizio o di una sospensione degli stessi per evitare accanimenti e ostinazioni irragionevoli in cure che possono diventare sproporzionate agli obiettivi prefissati e gravose per il paziente.
Nel considerare invece i trattamenti di sostegno vitale all’interno di una serie di requisiti per escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio e, quindi, delimitare il perimetro di tale possibilità dovrebbero essere considerati come tali i trattamenti sostitutivi delle funzioni d’organo vitali divenute insufficienti utilizzando tecnologie avanzate e approcci specialistici, e non anche, come da taluni ritenuto, ogni trattamento medico o assistenziale che permette comunque il mantenimento in vita. Si tratta di un requisito, questo dei trattamenti di sostegno vitale, che perderebbe completamente il suo significato se esteso oltre il limite di interventi complessi da cui dipende la vita, sospesi i quali la morte conseguirebbe in tempi brevi.
In conclusione, anche chi non ritiene compatibile con un’antropologia e una bioetica personalista tanto il suicidio assistito quanto l’eutanasia si aspetta dalla Corte costituzionale piuttosto una tutela delle persone più vulnerabili che vivono l’esperienza della sofferenza e della traiettoria ultima della vita, anche attraverso una più energica sollecitazione della disponibilità delle cure palliative, che non un allargamento delle condizioni che, di fatto, permetterebbero un ricorso più indiscriminato al suicidio assistito.