La rotta di collisione fra Donald Trump e la magistratura americana impartita dai primi atti della nuova Amministrazione Usa ha prodotto il temuto impatto. I suoi effetti non sono ancora chiari, ma bisogna accettare l’idea che è solo il primo scontro e che altri Big Bang costituzionali sono dietro l’angolo.
Nell’ultima settimana il capo della Casa Bianca ha ignorato gli ordini di vari tribunali federali, rifiutandosi di revocare la sospensione degli aiuti esteri, le deportazioni di categorie protette di immigrati, alcuni tagli alla spesa federale e il licenziamento massiccio di dipendenti pubblici.
È un Rubicone che nessun presidente americano aveva attraversato prima, almeno negli ultimi 150 anni, ma a rendere la crisi costituzionale particolarmente spaventosa è quanto fosse prevedibile e inevitabile allo stesso tempo. Trump infatti è sul piede di guerra con i giudici americani da almeno quattro anni, durante i quali ha accusato a più riprese quelli che hanno pronunciato sentenze contro di lui di essere terroristi, pericolosi estremisti di sinistra o malati di mente. Nessuno allora poteva illudersi che scherzasse quando, all’inizio di febbraio, ha scritto sui social media che «chi salva il suo Paese non viola alcuna legge» e, poco dopo, che nessun giudice «dovrebbe essere autorizzato» a pronunciarsi contro la sua Amministrazione.
Eppure il mondo legale americano si è trovato spiazzato davanti alla sfacciataggine con la quale negli ultimi giorni gli avvocati di Trump hanno messo in discussione la legittimità dell’ordine restrittivo di James Boasberg, il giudice distrettuale capo degli Stati Uniti a Washington che ha imposto alla Casa Bianca di sospendere le espulsioni di cittadini venezuelani. I voli di deportazione sono continuati e Trump ha chiesto l'impeachment e la rimozione del magistrato.
La sorpresa forse deriva dal fatto che, da quando si è insediato, il presidente americano ha invocato a più riprese l’intervento della magistratura a suo favore, in particolare chiedendo alla Corte Suprema di legittimare la serie di ordini esecutivi che ha firmato a una velocità e su una scala mai viste, provocando decine di ricorsi. Fino a una settimana fa, infatti, gli accademici spiegavano il comportamento di Trump argomentando che stava cercando di rilanciare, in forma estrema, un principio vecchio di 40 anni e noto come la teoria dell’esecutivo unitario, in base alla quale i presidenti dovrebbero avere il controllo totale del governo, anche violando le tutele sancite dal Congresso. Negli ambienti legali americani si sentiva dire che l’Amministrazione Trump voleva ristabilire l’esecutivo unitario a suon di sentenze, contando in particolare sul fatto che il presidente dell’attuale Corte Suprema, John Roberts, in due casi che coinvolgevano Trump aveva affermato che la presidenza ha bisogno di un «esecutivo energico».
Ora una tale visione appare ingenua. La situazione è degenerata tanto, e tanto velocemente, che questa settimana lo stesso Roberts, che l’anno scorso ha concesso a Trump una certa immunità legale, ha risposto con un raro rimprovero alla richiesta di impeachment del giudice Boasberg. «Per più di due secoli — ha scritto Roberts — è stato stabilito che la rimozione non è una risposta appropriata al disaccordo riguardante una decisione giudiziaria. Il normale processo di appello esiste per quello scopo».
In realtà, i due comportamenti apparentemente contraddittori di Trump — attaccare i giudici e appellarsi al massimo tribunale Usa — non fanno che mettere in evidenza una visione altamente strumentale del potere giudiziario. E anche l’esistenza, in questo momento negli Usa, di un ramo esecutivo che opera solo sulla base della sua capacità di farla franca, sia politicamente che legalmente.
Allora forse conviene aprire gli occhi e accettare che gli Stati Uniti sono già andati oltre la crisi costituzionale e sono in mano a un governo che vuole imporre un potere di tipo dittatoriale. O, come ha sostenuto un ex magistrato che non può essere accusato di aver mai nutrito alcuna simpatia per la sinistra, J. Michael Luttig, a un regime che «ha dichiarato guerra allo Stato di diritto». Se è così, la domanda da porsi non è più fino a che punto si spingerà l’Amministrazione Trump, ma chi potrà fermarla.

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