Il gioco giornalistico sulla durata dell’attuale governo rischia di mettere in secondo piano qualcosa di più profondo, che invece emerge in modo evidente dalla forte accelerazione che M5s e Lega hanno impresso alla partita delle nomine nei posti-chiave del potere istituzionale, economico e finanziario del Paese. Nel mentre si guarda il dito (se, quando, perché e come ci sarà un’eventuali crisi...) si perde di vista la luna: i vicepremier Di Maio e Salvini hanno siglato un patto molto più profondo del 'contratto' cui costantemente si richiamano, un patto che indica il mutuo riconoscersi come le forze politiche destinate a guidare il Paese nei prossimi anni.
Un 'Patto del Nazareno del cambiamento', se si volesse lavorare d’ironia. Più seriamente, invece, è bene comprendere - oltre la cronaca dei fatti spiccioli - che i leader di Lega ed M5s, ora al governo insieme, immaginano il ciclo politico che si è aperto il 4 marzo 2018 come un 'nuovo bipolarismo' nell’era del tripolarismo imperfetto. La durata dell’attuale esecutivo è un tema importante, certo. Ma più importante è capire che, alleati o no, Salvini e Di Maio hanno trovato una profonda intesa sull’impegno per non far rientrare in campo nessuno dei protagonisti della fase precedente, da Berlusconi a Renzi, dal moderatismo europopolare alla sinistra (in versione riformista o neoradicale).
I due leader possono litigare su singoli dossier, ma giocheranno sempre di sponda nel mettere al bando i 'volti' e le idee del vecchio bipolarismo, che loro vogliono superare in tutto e per tutto. Sarebbe perciò illusorio, da parte sia di Forza Italia sia delle varie anime del Pd, avere come principale e quasi unica strategia l’attesa di un «incidente» che li riporti in scena. La velocità furiosa con cui i due azionisti del governo stanno andando all’attacco dei posti chiave delle istituzioni pubbliche e delle autorità indipendenti, sino ai vertici di Bankitalia, è infatti sintomatico di un progetto politico che va oltre questo breve scorcio di fine decennio. Come accaduto anche per Consob, non conta tanto avere pronto un piano alternativo o di aver già disponibili persone e competenze (dalle dimissioni 'volontarie' dell’ex presidente Mario Nava alla sofferta indicazione di Paola Savona sono passati quasi quattro mesi), ma creare spazi, sloggiare da posti e poltrone.
E presentare questa operazione come una sorta di «bonifica». Perché poi una soluzione si troverà, e si troverà dentro un unico perimetro, quello che Lega ed M5s stanno costruendo per conservare stabilmente la maggioranza dei consensi che legittima, questa la tesi, l’assalto a quei Palazzi - certo non esenti da errori, colpe e responsabilità - dove gli eccessi del potere politico e delle logiche del consenso trovano storicamente un argine oggettivo, neutrale, si direbbe quasi di buon senso. Lungo questo sentiero di riflessione, lo sguardo si allunga e si interroga su cosa accadrà nel gennaio 2022, quando scadrà il mandato settennale del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il Parlamento dovrà compiere la scelta più importante, la nomina del nuovo capo dello Stato. Per questo motivo il tema della durata dell’esecutivo e delle mine che potrebbero farlo saltare rischia di essere sovrastimato. In qualsiasi scenario, Salvini e Di Maio si immaginano sia nel breve sia nel medio termine come il baricentro ineludibile che muove le pedine lungo l’intero terreno di gioco.
Ecco forse il grande errore delle opposizioni: credere di trovarsi dentro una confusa e stordente parentesi, senza comprendere fino in fondo che la focosa spartizione avviata dai capi di due dei tre poli italiani è un piano, magari caotico e bizzoso ma non ingenuo, per 'smontare il sistema' e reindirizzare in profondità gli assetti culturali, sociali e ed economico- finanziari del Paese.