Il testo delle risposte che papa Francesco ha inteso fornire riguardo ai dubia espressi da cinque cardinali interpella i teologi in maniera sia esplicita che implicita. Si tratta infatti di risposte aperte che richiamano sia la dottrina che la prassi ecclesiale e, proprio per questo, hanno bisogno di adeguato approfondimento squisitamente teologico.
L’appello ai teologi emerge già nella risposta al primo quesito che riguarda la necessità di re-interpretare la Parola di Dio alla luce del contesto contemporaneo. Scrive il Papa: «Se è intesa come “interpretare meglio”, l’espressione è valida. In questo senso, il Concilio Vaticano II affermò che è necessario che, con il lavoro degli esegeti – e aggiungo, dei teologi – “maturi il giudizio della Chiesa”».
L’aggiunta è importante: non siamo una religione del libro e dobbiamo evitare a tutti i costi il biblicismo esasperato. Ed è per questo che il lavoro di reinterpretazione è affidato non solo agli esegeti ma appunto, direi soprattutto, ai teologi. Del resto, un’adeguata lettura dei segni dei tempi consente una migliore comprensione della rivelazione stessa. Karl Barth, che sosteneva la necessità di fare teologia con la Bibbia in una mano e nell’altra il giornale, riteneva imprescindibile il rapporto con il pensiero laico.
Il teologo di Basilea, nel suo secondo Römerbrief, affermava: « La lettura di ogni sorta di letteratura profana, e anzitutto dei giornali, deve essere raccomandata con insistenza a chi vuole comprendere l’Epistola ai Romani». Nel 1918, anno in cui chiudeva la prima stesura del suo capolavoro, scrivendo a Eduard Thurneysen, così si era espresso: «Ci fossimo convertiti prima alla Bibbia per avere ora un solido fondamento sotto i piedi! Si medita alternativamente sui giornali e sul Nuovo Testamento e si vede terribilmente poco del nesso organico dei due mondi, del quale si dovrebbe ora rendere testimonianza con chiarezza e forza».
Il compito del teologo è proprio quello di pensare il “nesso” fra il kerygma, ovvero la Parola, e il kairòs, ossia il nostro tempo. Un punto nevralgico che chiede un’adeguata riflessione teologica lo rinveniamo nella risposta alla domanda circa la possibilità di impartire la benedizione a coppie formate da persone dello stesso sesso. Il Papa, come del resto aveva fatto in Amoris laetitia, ribadisce la dottrina secondo cui il sacramento del matrimonio è tale in quanto sigilla l’unione dell’uomo con la donna, come segno dell’unione fra Dio e l’umanità, Cristo e la Chiesa. Il culto si vive in una pluralità di forme e di riti, gerarchicamente organizzati, al vertice dei quali si situano i sette segni.
Le benedizioni, del resto, non hanno dignità di sacramento. Il termine tecnico è “sacramentali”. Sembra a chi scrive che sarebbe fuorviante innestare la benedizione di coppie omosessuali sul sacramento del matrimonio, piuttosto – e l’uso dell’acqua benedetta lo suggerisce – tale ritualità dovrebbe far riferimento al sacramento del battesimo. La teologia è chiamata a sostenere il discernimento, affinché si evitino equivoci.
Infatti, «la prudenza pastorale deve discernere adeguatamente se ci sono forme di benedizione, richieste da una o più persone, che non trasmettano un concetto errato del matrimonio. Perché quando si chiede una benedizione, si sta esprimendo una richiesta di aiuto a Dio, una supplica per poter vivere meglio, una fiducia in un Padre che può aiutarci a vivere meglio». In questo senso la prassi pastorale non va vissuta e interpretata come una meccanica applicazione della dottrina, come si evince anche dalla risposta della Congregazione della Dottrina della Fede circa la corretta interpretazione di Amoris laetitia.
Fra la necessaria salvaguardia dei princìpi e la cura delle persone nell’esercizio pastorale è oltremodo evidente, come mostra lo stile di Gesù di Nazareth, che deve prevalere la seconda prospettiva. Un ulteriore passaggio che impegna la riflessione teologica è quello concernente la possibilità dell’ordinazione a persone di sesso femminile. Anche a questo proposito Francesco ribadisce la dottrina e conferma quanto affermato da Giovanni Paolo II a riguardo. Tuttavia, «per essere rigorosi, riconosciamo che non è stata ancora sviluppata esaustivamente una dottrina chiara e autorevole sulla natura esatta di una “dichiarazione definitiva”. Non è una definizione dogmatica, eppure deve essere accettata da tutti.
Nessuno può contraddirla pubblicamente e tuttavia può essere oggetto di studio, come nel caso della validità delle ordinazioni nella Comunione anglicana». C’è molto da studiare e da pensare teologicamente non solo da parte dei singoli teologi, ma direi innanzitutto nel contesto delle università, dei gruppi di ricerca, delle associazioni, perché le prospettive qui indicate si attuino in un fecondo dinamismo di comprensione della Parola di Dio, anche a partire dal nostro contesto.