La guerra in Ucraina ha contribuito molto alla vittoria elettorale in Italia di una miscela nazionalsovranista. All’inizio di quest’anno, i sondaggi erano già favorevoli alla destra, la maggioranza di Draghi era molto fragile, si sapeva che presto si sarebbe andati al voto, eppure il clima era diverso. Dopo il successo dei vaccini sul Covid-19, con il sostegno dell’Europa alle economie nazionali attraverso il Pnrr e un premier ascoltato a livello internazionale, in Italia prevalevano le speranze, e il populismo (variamente connotato) appariva in difficoltà.
Nonostante una maggioranza relativa di centrodestra, il Parlamento aveva rieletto Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica. Tuttavia, l’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio ha cambiato la storia. È una guerra relativamente lontana, i profughi ucraini arrivati in Italia in fondo sono stati pochi, per molti mesi non ci sono stati effetti economici immediatamente tangibili. Ma questo in superficie: in profondità, invece, gli italiani hanno avvertito che – malgrado i conflitti gravi ma circoscritti dei Balcani negli anni Novanta – per la prima volta dal 1945 la guerra è tornata davvero in Europa. Di più: che l’aggressione russa all’Ucraina svelava drammaticamente un mondo oggi senza più un ordine internazionale condiviso.
La guerra comporta molte imprevedibili conseguenze negative e la sensazione che il futuro non è più nelle nostre mani. Queste preoccupazioni profonde, però, non hanno trovato un’espressione adeguata nel dibattito politico. La decisione parlamentare di inviare armi in Ucraina è stata presa su una spinta emotiva, senza dibattito e quasi all’unanimità, salvo poi tardivi ripensamenti e ambigui distinguo. Interrotta senza un motivo chiaro l’esperienza Draghi e mentre gli effetti della crisi energetica cominciavano a mordere, in campagna elettorale non si è parlato apertamente del problema guerra, mentre putiniani e antiputiniani, pacifisti e atlantisti si mischiavano trasversalmente nei vari schieramenti...
È mancato, insomma, un confronto serrato su guerra e pace, su strade intelligenti per favorire il negoziato e/o posizioni forti per chiudere presto il conflitto. È mancata, soprattutto, una posizione come quella che ha ispirato la politica estera italiana per molti decenni, unendo la scelta per l’Occidente alla capacità di integrare – in chiave europea e mediterranea – la politica americana. Ecco allora un voto che viene dal profondo. Guerra vuol dire paura e bisogno di protezione, di autorità più che diritti, di muscoli più che di ragionamenti, di conservazione più che di progresso.
Ha vinto chi enfatizza il legame con gli Usa – il vero 'scudo' militare per l’Italia – e mostra freddezza verso l’Europa – una costruzione di pace e per la pace. Anche la difesa strenua del Reddito di cittadinanza così com’è ha attirato voti: pure questa suona protezione. Non è andato oltre un circoscritto (anche se non sempre piccolo) zoccolo duro, invece, chi ha trascurato le inquietudini scatenate da tempi incerti.
E la Chiesa? Ciò che dice è sempre, in una certa misura, 'inattuale', non sincronizzato con i tempi della politica. Insistendo sui più poveri, sembra non rispondere alle richieste di protezione da parte di altri. Non è così. Ammonendo sui molteplici inverni che ci aspettano, la Chiesa spinge a cercare un futuro migliore per tutti. È così anche quando insiste sulla pace. Ma a volte il suo pur chiaro messaggio rischia di non essere ascoltato, né capito. Sovranismo e populismo, si dice ora, sono le uniche vere garanzie della democrazia in quanto rispettano la volontà popolare.
Ma vera democrazia non è contare i voti e passare alla dittatura della maggioranza, bensì ascoltare domande profonde e garantire un dibattito più ricco possibile. Non basta la 'scelta atlantica', se poi si indebolisce l’Europa e si allontana l’Italia dal suo cantiere: agli italiani una protezione vera può venire solo da un ordine mondiale in cui l’Europa svolga un ruolo decisivo. Non cercare questo è nella sostanza antidemocratico perché contro gli interessi del popolo.
Davanti alla complessità della situazione contemporanea, inoltre, c’è bisogno di élite capaci di interpretarla e di affrontare problemi che in gran parte vengono da lontano, come la crisi energetica. Spesso le élite non lo fanno e per questo meritano critiche severe, ma non è una soluzione – come afferma il populismo – rompere quel legame tra élite e popolo che è nell’interesse di quest’ultimo. Nella vulgata nazional-sovranista e populista c’è democrazia se ci sono elezioni, e tanto basta. E invece no. Su queste pagine è già stato scritto a chiare note: il voto è necessario, ma non basta.
È un vulnus anche indebolire i corpi intermedi che arricchiscono la società civile. Non la rafforza neanche colpire istituzioni, norme e procedure che permettono di dare equilibrio all’esercizio dei diversi poteri e di conciliare molteplicità delle voci e bene comune. Un presidente eletto dal popolo e con forti poteri semplifica molto, ma non è affatto garanzia di democrazia: la storia del XX e del XXI secolo è piena di esempi che lo dimostrano, anche tragicamente. Guardiamoci intorno in un mondo senza pace e senza giustizia, e teniamolo a mente.