Come bisogna guardare alla Risurrezione di Cristo? Come a un evento ormai chiuso e, per di più, lontano nel tempo? O come a una dinamica che si innesta intimamente nelle vicende di ogni giorno e le trasforma dal di dentro? Ieri il Papa, al momento di recitare il Regina Coeli (la preghiera che nel periodo pasquale sostituisce l’Angelus), ha ricordato a tutti che è quest’ultimo il modo più autentico di vivere la Pasqua. Perché dal momento della scoperta di quel sepolcro vuoto, tutto è cambiato. E non si può più far finta di niente. La trasformazione innescata dall’evento fondante del cristianesimo è infatti ben più profonda di un semplice «maquillage». Anzi, in un certo senso corrisponde a una mutazione genetica che chiede di essere letta sui volti pieni di gioioso stupore dei discepoli e di riverberarsi, come ha sottolineato il Pontefice, «nei pensieri, negli sguardi, negli atteggiamenti, nei gesti e nelle parole». In altri termini la Risurrezione è un procedimento che deve camminare sulle gambe dei cristiani, fino a irradiarsi urbi et orbi, come il messaggio con il quale Francesco domenica scorsa ha ri–annunciato al mondo la vittoria definitiva di Gesù sulla morte.La riflessione di ieri segna perciò lo sbocco naturale di quanto il Pontefice ha detto e fatto in questi giorni. «Lasciamo che questa esperienza, impressa nel Vangelo, si imprima anche nei nostri cuori e traspaia nella nostra vita», ha esortato Francesco. Sottolineando così la fondamentale categoria della testimonianza, cioè di un’esistenza coerente con la gioia che ne è all’origine e che scaturisce dall’incontro con il Risorto. Sottolineatura che non poteva giungere più opportuna all’inizio di una settimana che culminerà nella canonizzazione di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II. Nella loro vita, prima e dopo l’elezione alla cattedra di Pietro, è infatti riscontrabile la traduzione esemplare di quello che il Papa ha chiesto ieri ai fedeli. Non è chi non veda che nei pensieri, negli sguardi, negli atteggiamenti, nei gesti e nelle parole di Angelo Roncalli e di Karol Wojtyla la Risurrezione è sempre largamente affiorata, al punto da trasformarli davvero in «raggi di luce del Risorto nelle diverse situazioni».In fondo la santità non è nient’altro che questo. Un incontro a tal punto totalizzante con il Cristo glorioso che porta il discepolo a essere egli stesso «in un certo senso risorto» e a comportarsi di conseguenza. Le parole del Papa aggiungono dunque gioia a gioia, speranza a speranza. Perché questo dono di Dio non è fatto solo ai fuoriclasse della fede, come sono stati i due Pontefici prossimi santi, ma a ogni uomo e a ogni donna del nostro tempo. Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II con la loro testimonianza ci aiutano a comprenderlo meglio. Vicini agli uomini nella gioia come nella sofferenza, perché profondamente immersi nel mistero della morte e Risurrezione di Cristo, che aveva cambiato radicalmente la loro esistenza.E quello che Roncalli e Wojtyla hanno vissuto e testimoniato è scritto come “regola d’oro” anche nel Messaggio Urbi et orbi di Francesco. Molti media hanno sottolineato solo l’elenco delle situazioni dolorose presenti oggi nei diversi scenari internazionali, dalla Siria all’epidemia di ebola in Africa, passando per la difficile situazione in Ucraina e il terrorismo in Nigeria. Ma se non si va alla radice cristologica di questo sguardo a 360 gradi, si rischia di ridurre il Papa a una sorta di “sindaco del mondo”. Invece, la sua premura – al pari di quella dei suoi predecessori in occasioni simili ¬– è proprio riverbero del Risorto nella vita del mondo. Trasparenza di quella Buona Notizia che «non è soltanto una parola ma una testimonianza di amore gratuito e fedele». E che perciò è capace di uscire incontro all’altro, di stare vicino a chi è ferito dalla vita, di condividere con chi manca del necessario, di rimanere accanto a chi è malato o vecchio o escluso. In una parola, di continuare a cambiare il mondo secondo la dinamica della Risurrezione.
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