È tornato il terrorismo a Mosca e questa volta è entrato nelle viscere della capitale russa, seminando morte e distruzione nel suo punto più vulnerabile, la metropolitana, e nel momento di massimo affollamento, nell’ora di punta. Una doppia strage di grande impatto mediatico che irrompe nella vita quotidiana di milioni di cittadini, costretti a fare i conti con una barbarie vile e omicida. Ma è anche uno sberleffo al potere: la prima delle due esplosioni si è verificata nella stazione della Lubyanka, a cinquecento metri dalla Piazza Rossa e a due passi dalla sede centrale del Fsb, i servizi segreti eredi del Kgb. È un segnale, particolarmente odioso e inquietante, che arriva nel decennale dell’ascesa al Cremlino di Vladimir Putin, eletto presidente a furor di popolo nel marzo del 2000 sull’onda dello slogan «sicurezza e stabilità». Il terrorismo è tornato quando nessuno se l’aspettava. D’improvviso, la Russia ricade nell’incubo, cominciato nell’estate del 1999 con gli attentati dinamitardi che sventravano i condomini della periferia di Mosca, proseguito con la strage nel teatro della Dubrovka del 2002, e culminato nel massacro di Beslan dell’autunno 2004, quando trecento bambini furono presi in ostaggio dai guerriglieri ceceni e rimasero uccisi dopo uno spaventoso blitz dell’esercito federale. Che quella tragica stagione fosse definitivamente archiviata era convinzione comune fino a ieri. Non per nulla il presidente Medvedev, un anno fa, aveva decretato la fine delle operazioni anti-terrorismo in Cecenia, forzatamente pacificata dal proconsole di Mosca, il giovane e violento Kadyrov. Ed ecco invece che rispunta il separatismo ribelle, con gli attentati compiuti da donne-kamikaze e subito rivendicati da un gruppo d’indipendentisti del Caucaso. Il fatto è che la guerriglia anti-russa, praticamente debellata in Cecenia, ha ripreso vigore nelle Repubbliche confinanti, soprattutto in Daghestan e nell’Inguscezia, dove sparatorie, attentati, sequestri e saccheggi sono all’ordine del giorno. Qui «il terrorismo trova fertile terreno nell’instabilità politica, nel caos sociale, nella corruzione diffusa e nell’elevata disoccupazione giovanile». Parole del neo-governatore del Daghestan, Magomedov, un economista molto stimato dal leader del Cremlino. Insomma, le avvisaglie della nuova ondata di terrore c’erano tutte e se n’è avuta una concreta dimostrazione lo scorso novembre, quando saltò in aria il treno Mosca-San Pietroburgo. La mente della strage, Said Buryatsky, capo dei separatisti dell’Inguscezia, è stato ucciso dai servizi federali poche settimane fa. Gli attentati nel metrò potrebbero essere una rappresaglia dei gruppi indipendentisti che si sono riorganizzati sotto la guida dell’emiro del Caucaso Doku Umarov, un comandante dato per morto varie volte ma che, a quanto pare, ha sempre trovato la strada per tornare dall’inferno. Si riaprono vecchi scenari con Putin che, di fronte al risorgente terrorismo, promette «il suo annientamento». Dieci anni fa aveva espresso lo stesso concetto con un linguaggio da caserma: «Inseguiremo i terroristi fin dentro il gabinetto». Forse dovrebbe fare un po’ d’auto-critica. Anziché scomparire, la sindrome cecena ha ormai contagiato l’intero Caucaso. Come ha detto il leader dell’opposizione Nemtsov, in una recente intervista al nostro giornale, la guerra con la Georgia e il riconoscimento dell’indipendenza della Repubblica secessionista dell’Ossezia del Sud hanno attizzato il fuoco separatista anche nel Caucaso del Nord. Davvero un triste decennale: non solo per zar Vladimir, ma per tutta la Russia.