Mai ci abbiano in ostaggio
martedì 23 aprile 2019

Uno dei modi di definire lo Sri Lanka è la “lacrima dell’India”. La sua particolare conformazione geografica lo fa assomigliare a una lacrima: quasi fosse scivolata dal viso della grande India. Paradossalmente oggi questa definizione rappresenta la sofferenza di migliaia di srilankesi – non importa a quale etnia appartengano perché tutte sono state colpite – e di stranieri che piangono i loro morti. La sofferenza delle centinaia di feriti si somma al dolore per le persone scomparse negli sconvolgenti attentati che hanno colpito tre città del Paese. È tutto il mondo a piangere con lo Sri Lanka, mentre una condanna unanime si leva da ogni popolo, governo e soprattutto da ogni religione.

Si sono voluti colpire ancora una volta i più inermi: le persone in preghiera nella grande festa di Pasqua, cuore della fede di ogni cristiano, e i turisti, che dopo lunghi tempi di guerra e di violenza, sono tornati recentemente in questo bellissimo Paese (sostenendone con la loro presenza l’economia e lo sviluppo). Il terrorismo ha colpito con il massimo della ferocia e con un’implacabile coordinazione: è risuonato in ogni dove l’urlo di una violenza cieca, che tutto vuole mettere a tacere, innanzitutto la speranza di un mondo in pace, dove sia possibile convivere tra persone di tradizioni e di fedi religiose diverse. Si può agire così solo se accecati dall’odio, che non ti fa vedere il volto delle donne che pregano di fronte alla statua di sant’Antonio, considerata miracolosa, nel santuario a Colombo, dei ragazzi stranieri che fanno colazione in un hotel prima di uscire per la gita, degli anziani pieni della gioia della festa di Pasqua che si recano alla Messa.

Abbiamo imparato a conoscere i cristiani cingalesi anche perché alcuni di loro, per i fenomeni migratori di questo tempo, vivono con noi, frequentano le nostre chiese, lavorano con noi. In Sri Lanka sono una minoranza pacifica, non irrilevante nel Paese: più di un milione e mezzo, per lo più cattolici, suddivisi in dodici diocesi. Hanno ricevuto nel gennaio del 2015 la visita di papa Francesco, tra la sorpresa generale. Uno dei suoi primi viaggi proprio in Sri Lanka. Perché? – se lo sono chiesto in molti. Perché sono cristiani di minoranza e di “periferia”, circa il 7%, che vivono in una terra dal forte vissuto religioso: i buddisti al 70%, i musulmani al 10%, gli indù al 12,5 %. Una terra dove la religione è stata anche motivo di scontro e violenza, ma in cui i cristiani hanno sempre cercato di essere “ponte”: un ponte di pace, un esempio di coabitazione. Ed è proprio questo ponte che i terroristi hanno cercato di distruggere.

Quale la colpa di quei cristiani in preghiera nel giorno di Pasqua? Gioire della Resurrezione di Gesù, «festa della rimozione delle pietre, in cui Dio rimuove le pietre più dure, contro cui vanno a schiantarsi speranze e aspettative», come ha detto il Papa nella veglia pasquale a San Pietro. I cristiani dello Sri Lanka sono i figli di questa «festa della rimozione delle pietre», perché tante ne hanno rimosse nella loro storia, divenendo segno di pace nel Paese. Quello che impressiona è la crudeltà con cui il terrorismo tenta di schiacciare con il masso pesante della violenza umanità e speranza. Ma i cristiani in tante situazioni complesse e dolorose sono un segno di resurrezione. Per questo sono colpiti anche qui, come negli ultimi tempi in Nigeria, Pakistan, Egitto e altrove. Ma la loro via non è quella della vendetta, che porta a essere ostaggi e pedine dell’odio, è sempre quella del Vangelo della pace e della Resurrezione.

Mentre tanti muri sorgono, i cristiani e con più tenacia i nostri fratelli e sorelle che sono nella persecuzione continuano a costruire ponti. Anche tra le religioni, come ha mostrato papa Francesco ad Abu Dhabi e in varie occasioni nei confronti dell’islam, tendendo la mano a chi è ostaggio della violenza pseudoreligiosa e cerca una via per uscirne. Di fronte alla cecità del terrorismo, le comunità cristiane continuano a vivere nella luce della Pasqua che illumina una vita secondo il comandamento dell’amore. Un amore che nell'effusione del sangue per la fede diventa martirio e unisce i fedeli di Cristo delle varie confessioni in quello che il Papa chiama l’«ecumenismo del sangue».

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