Il 50,3% è una maggioranza risicatissima. Tanto varrebbe considerare che la minoranza – il 49,7% – è talmente consistente da mettere in dubbio che con sole 19.516 schede di scarto quella conseguita dall’Unione democratica di centro (a dispetto del nome, partito della destra conservatrice) sia davvero una vittoria. Il problema però non sta nei numeri, ma nel senso profondo di questo referendum con cui la Svizzera ha detto "sì" all’introduzione di tetti e quote agli immigrati, o – come recitano molti giornali elvetici – "contro l’immigrazione di massa". E anche se, statistiche alla mano, i più ostili all’ingresso di nuovi immigrati fra i 17 cantoni che hanno votato "sì" sono stati quelli di lingua tedesca e italiana (in testa a tutti il Canton Ticino), mettendo in fibrillazione le migliaia di lavoratori frontalieri provenienti dall’Italia, più importante – e grave – è il fatto che il risultato della consultazione popolare rimette in discussione buona parte degli accordi stipulati fra la Confederazione e l’Unione Europea, su tutti quello del 2000 (anch’esso approvato grazie a un referendum), che riconosce il principio della libera circolazione, per finire con quello di Schengen, che Berna ha riconosciuto nel 2008 abolendo i controlli alle frontiere. La domanda dunque irrompe senza mezze misure: si tratta di un voto viziato da xenofobia, da razzismo mascherato, da intolleranza, da supponente autolesionismo, da mancanza di solidarietà nei confronti della parte debole e meno fortunata del mondo? La nazione che alla luce del sole ospita la Croce Rossa, le agenzie umanitarie dell’Onu, molti dei tavoli negoziali che tentano di risolvere le più spinose controversie internazionali pilatescamente scarica nottetempo la "zavorra maleodorante" (l’espressione è di un foglio quotidiano svizzero di lingua tedesca) della manodopera proveniente dall’est e dal sud del mondo? La barca – per parafrasare il titolo di un doloroso film degli anni Ottanta – è davvero piena? Per molti svizzeri quel milione e duecentomila cittadini di origine europea che lavorano nella Confederazione (trecentomila sono italiani, cui bisogna aggiungere i duecentomila frontalieri) sono già troppi. E questo "sì" al referendum che di fatto è un "no" alla solidarietà e all’accoglienza porterà fatalmente benzina al fuoco del populismo antieuropeo e linfa al rigurgito dei nazionalismi, oltre che a quella strisciante fronda sovranazionale che vede nella moneta unica, nella Germania e nel rigorismo del nord la causa unica dei mali che affliggono l’Unione Europea. Questa è l’eredità peggiore che il referendum elvetico – la cui legittimità non può essere messa in discussione – ci consegna; ricordandoci, ove mai ve ne fosse stato bisogno, che il tema dell’immigrazione – colpevolmente messo in sordina dai ricchi Paesi nordici e liquidato per troppi anni come una sgradevole faccenda di competenza del meridione d’Europa – in anni di crisi occupazionale e di profonda crisi economica si amplifica a dismisura, fino ad occupare se non il cuore dell’agenda europea (troppo impegnata ancora a stabilire se perseguire politiche di rigore o agevolare la crescita economica) certamente il cuore (meglio: il ventre) di un elettorato formalmente silenzioso ma intimamente impaurito, che nel momento di infilare una scheda nell’urna fa sentire la voce di una protesta non molto lucida, ma impossibile da non udire. Prova generale di una più che probabile débâcle dei partiti tradizionali alle prossime elezioni europee di maggio a favore dei Geert Wilders, delle Marine Le Pen, delle formazioni xenofobe come il Freiheitlichen Partei Österreichs austriaco, il britannico Ukip di Nigel Farage o il Vlaams Belangs belga... A ciò si aggiunga il ribollente calderone politico italiano, dove per disomogenei ma convergenti motivi sembrano saldarsi l’intransigenza antieuropea di Lega e Movimento Cinque Stelle con le ansie di rivincita di almeno parte di Forza Italia e il bisogno di visibilità della sinistra più radicale. Ma, per paradosso, proprio dal referendum svizzero potrebbe viceversa venire quella scossa indispensabile perché l’Unione Europa ritrovi per una volta l’antica spinta ideale per cui è nata tanti anni fa, mettendo le politiche del lavoro (e quindi anche dell’immigrazione) al centro della propria missione, facendo della crescita economica il volano per una crescita civile nella quale trovi posto anche una soluzione a un’immigrazione incontrollata e incontrollabile com’è ora, senza per questo rinunciare al principio incancellabile dell’accoglienza e della solidarietà. Non è un’utopia, è solo un’urgenza. Di fronte a un malessere di cui scorgiamo tutti i sintomi senza aver il coraggio di proporne la cura.