Caro Direttore, il dibattito su Avvenire sul ruolo degli smartphone nella nostra vita si fa sempre più appassionante, segno di una presa di coscienza collettiva e della rottura di alcune barriere culturali che spesso inquadravano (e inquinavano) il legame tra uomo e tecnologia in modo esclusivamente conflittuale. Quello che vorrei provare a condividere è proprio una riflessione libera da contese intellettuali ma capace di tradurre quello che possiamo definire un vero e proprio cambio di paradigma che vede la tecnologia sfumarsi sempre di più per lasciare il posto – finalmente – alla nostra umanità. Il problema non è educare all’uso corretto degli strumenti tecnologici; il problema è educare all’uso corretto della propria esistenza, oggi vissuta anche nella comunicazione digitale. È questo il punto più controverso che molti non riescono a cogliere.
Un dispositivo digitale, seppur collegato alla rete, altro non è che un mezzo. E come tutti gli strumenti non è dotato di capacità di azione, di intenzionalità, non è un satanasso pronto a indurci in tentazione ma è soltanto un artefatto tecnico complesso nel quale l’uomo proietta se stesso. La proiezione ha un’etimologia importante: deriva da proiectus, ovvero indica quella dimensione progettuale che è insita nell’individuo sociale. Ognuno di noi ha legittime aspirazioni, combatte per realizzare i propri obiettivi, esprime la propria personalità sia nel bene che nel male. Questo fa dell’uomo un essere creativo e libero che gioisce, prova emozioni, aiuta l’altro, realizza il bene, diffonde il bello. Ma può anche fare l’opposto e cadere nelle spirali della deviazione. Tra queste, è sufficiente citare, ad esempio, il lungo elenco che il pedagogista Novara fa (Avvenire, 10 gennaio 2018): la pornografia, la violenza, la fragilità, l’incapacità di concentrazione, i disturbi del sonno, la manipolazione, descrivendo (in modo assolutamente legittimo) uno scenario che rappresenta soltanto la porzione negativa di tutta la realtà, non esclusivamente di quella digitale. Quella realtà che, indipendentemente, dall’essere offline o online è soltanto il riflesso della nostra qualità etica.
Un bambino – cito ancora Novara – «di 8-9-10 anni che si ritrova in tasca un apparecchio con libero accesso alla Rete» vive questa condizione perché non ha alternative e perché non è educato a processi autentici di relazione che possono concretizzarsi faccia a faccia ma anche attraverso una chat. E anche perché il padre e la madre sono disattenti, stanchi, incapaci di farsi carico della responsabilità genitoriale di cui sono investiti rischiando di costruire quella che Pier Cesare Rivoltella (nel Nuovo Rapporto Cisf 2017 su Le relazioni familiari nell’era delle reti digitale) definisce «famiglia lassista» ovvero una famiglia «che rinuncia a mediare il rapporto dei figli con le tecnologie digitali». Questi affanni riguardano non solo i genitori ma tutte le categorie di educatori che si destreggiano ogni giorno tra mille difficoltà nei luoghi canonici della formazione. Tra questi, gli insegnanti che hanno nel decalogo «per l’uso dei dispositivi mobili a scuola» proposto dal ministero dell’Istruzione, uno strumento in più per orientarsi e agire nel proprio lavoro.
E vale per gli studenti che potrebbero colmare la loro incompetenza e maleducazione digitale frequentando il liceo della cultura digitale come ha suggerito Francesco Profumo ieri nelle pagine di questo giornale. Entrambe le soluzioni – a mio parere – continuano a leggere il nostro rapporto con la tecnologia attraverso una chiave riduzionistica, distaccata e rinunciataria. Ben vengano decaloghi (quello del Miur punta opportunamente sulla responsabilità) e percorsi di formazione mirati, ma deve rimanere centrale il riferimento ai valori primari della nostra umanità (il giusto, il vero, il rispetto, solo per citarne alcuni) che necessitano di essere continuamente appresi, meditati, discussi e incarnati e che possono rendere l’uomo meraviglioso. Sono un po’allergico alle ricette ma in conclusione mi sento di prescriverne una: iniziamo a guardare alla cultura digitale (di cui gli smartphone sono una mera espressione tecnica) in modo positivo e propositivo evitando etichette disfattiste (le parole hanno una valenza pedagogica fondamentale) e provando a ribaltare la prospettiva: da un’idea patologica, disfunzionale, difensiva, a una visione semplicemente umana. E quindi aperta all’errore, imperfetta ma perfettibile. Soltanto così potremo difenderci (e difendere i bambini) non certamente dagli smartphone ma da quei passi falsi nei quali, a causa dei nostri limiti (umani), possiamo inciampare.
*Sociologo dei media e Presidente Copercom