Anwar al-Awlaki è un nome che dice poco o nulla alla maggior parte degli occidentali. Un bene sicuramente, dato che gli ideologi del terrorismo jihadista diventano solitamente celebri in seguito ad attentati sanguinosi. Ma per gli esperti del radicalismo islamico violento, era uno dei personaggi in rapida ascesa del jihadismo legato ad al-Qaeda, addirittura uno dei possibili successori di Osama Benladen. Nato negli Stati Uniti, con un inglese molto fluente, era considerato il propagandista migliore per diffondere il sostegno a l’organizzazione in Occidente. Il suo cammino si è interrotto bruscamente ieri, colpito nello Yemen del nord da un missile lanciato da un drone americano, secondo la strategia di neutralizzazione dei nuovi capi del terrorismo jihadista adottata da tempo da Washington. Una forma di lotta al terrorismo, quella delle uccisioni mirate, che ha un problema di liceità morale, ma che senza dubbio indebolisce fortemente i gruppi radicali armati. Per un’organizzazione così mediatica come è sempre stata al-Qaeda, la "personalizzazione del brand", come direbbero i pubblicitari, è fondamentale. Osama era stato formidabile in questo: eroe che attirava molti seguaci nel mondo islamico, nemico "metafisico" che generava il terrore in Occidente. L’obiettivo dell’antiterrorismo è ora quello di impedire che si affermino leader capaci di imporsi sulla scena pubblica o di rappresentare un riferimento sicuro per i propri militanti, colpendoli prima che acquistino troppa notorietà. Inoltre, ognuna di queste uccisioni forza le cellule qaediste ad aumentare i contatti e gli scambi – di solito limitatissimi – per scegliere nuovi capi o per decidere le ritorsioni. Una crescita delle comunicazioni che li rende più vulnerabili alle intercettazioni e ai controlli elettronici. Infine, vanno considerate le conseguenze psicologiche che questi attacchi generano – o dovrebbero generare – nei teorici del jihadismo: la paura di diventare un bersaglio li dovrebbe rendere più prudenti nell’incitare alla violenza o più restii ad esporsi con messaggi e proclami. Un approccio al problema del terrorismo che sta dando frutti, indebolendone l’azione e riducendone la popolarità fra le masse islamiche. Ma al tempo stesso un metodo che agisce solo sulla parte visibile di un problema più complesso: se l’islamismo radicale ha potuto prosperare in questi anni, nonostante le soverchianti forze che sono state messe in campo per sradicarlo, è perché la leva della lotta militare incide solo sulla manifestazione di un disagio profondo, non sulle cause che ne favoriscono la crescita. Ne è un esempio classico il Pakistan, la cui stabilità è minata da continui attentati, o lo stesso Yemen, uno dei santuari del terrorismo islamico, squassato da mesi da proteste politiche contro il governo pluridecennale del presidente-autocrate Ali Abdullah Saleh. Ferito in un attentato mesi fa, e da pochissimo rientrato nel suo Paese, Saleh rappresenta bene la contraddizione che l’Occidente si trova a dover affrontare nella sua politica anti-terrorista. Egli sembra voler apparire come un bastione contro l’anarchia – il terreno di coltura migliore per i movimenti jihadisti – e quindi un governante da sostenere, ma è allo stesso tempo il classico rappresentante di quel corrotto autoritarismo che, negli scorsi decenni, ha rinfocolato sia l’estremismo islamico sia l’odio contro l’Occidente in tutto il Medio Oriente. Dopo aver per anni tollerato la crescita di gruppi radicali islamici nello Yemen ora, nel tentativo di non perdere il potere, il suo governo e le Forze armate collaborano attivamente con l’antiterrorismo statunitense. È lecito dubitare che lo faccia senza secondi fini. Ma il jihadismo non è rappresentato solo da al-Qaeda e non si combatte unicamente con i missili: come hanno dimostrato le rivolte arabe, se non si affrontano le cause del disagio, non vi è arma così spaventosa che possa fermare la rabbia.