L’intesa storica. Nel 2016 firmata a Cuba la fine delle ostilità
«È stata la cosa giusta. È sufficiente che guardi mio figlio per rammentarlo. Se non avessimo messo fine alla guerra, lui non ci sarebbe». Mentre parla, Rodrigo Londoño tiene in braccio Joan Rodrigo, nato a luglio dalla compagna Johana Castro. È uno dei “bimbi della pace”: le centinaia di piccoli che gli ex guerriglieri hanno messo al mondo quando hanno lasciato gli accampamenti nella selva, dopo la firma dell’accordo tra il governo colombiano e le Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (Farc), il 24 novembre 2016. A partire dal loro capo indiscusso: Rodrigo Londoño meglio noto come il “camarada Timo”, diminutivo di Timochenko, il suo primo nome di battaglia. All’epoca – aveva appena 17 anni nel 1976 – avrebbe preferito “Augusto” in onore dell’eroe nicaraguense César Augusto Sandino, ma un altro combattente l’aveva preceduto. Così, accettò il suggerimento di chiamarsi Timochenko in omaggio a Timochevich Timochenko, un intellettuale e insegnante sovietico. Dieci anni dopo, quando fu chiamato nella giunta direttiva della guerriglia – il cosiddetto “Secretariado” –, il fondatore e ideologo Jacobo Arenas lo ribattezzò “Timoleón Jiménez”. Acqua passata. Ora il terzo e ultimo leader del gruppo armato marxista più longevo al mondo – subentrato al potere dopo la morte di Guillermo León Sáenz Vargas alias Alfonso Cano, nel 2011 –, si presenta solo come Rodrigo Londoño, segretario di un partito legalmente riconosciuto, la Fuerza alternativa revolucionaria del común (Farc). Stessa sigla ma cesura netta rispetto al passato in mimetica. «La nostra lotta ora è esclusivamente politica. Con le armi abbiamo chiuso. Definitivamente», sottolinea. Eppure, il 29 agosto scorso, alcuni esponenti di spicco delle Farc – incluso il caponegoziatore con l’esecutivo, Luciano Marín alias Iván Márquez – hanno annunciato la ripresa delle ostilità di fronte al «tradimento » del governo e del presidente Iván Duque. «Una scelta sbagliata e irresponsabile».
Lei non la condivide, dunque. Perché?
Certo che no. Alcune persone non sono in grado di mantenere gli impegni presi. Trentaquattro mesi fa, ci siamo assunti una responsabilità di fronte al Paese, alla comunità internazionale e, soprattutto, alle vittime di oltre cinquant’anni di guerra. Abbiamo promesso loro che avremmo messo fine alla lotta armata. Sapevamo che non sarebbe stato facile. La firma dell’accordo è stata appena il primo passo verso la pace: è necessario un processo lungo e difficile, irto di pericoli. Al tempo, ne abbiamo discusso a lungo all’interno dell’organizzazione e, alla fine, insieme, abbiamo scelto di intraprendere questa strada, costasse quel che costasse. Tornare indietro è fuori discussione.
Iván Márquez e altre figure di spicco delle Farc, come Jesús Sántrich e Henry Castellanos alias Romaña, l’hanno fatto. Perché secondo lei?
Per ragioni personali. Non c’è alcuna giustificazione politica seria. Oltretutto la loro decisione denota un’assoluta incapacità di leggere la situazione storica attuale: la ripresa della lotta armata è una mossa anacronistica. A compierla, però, è stata un gruppo ridottissimo di ex compagni. Non si tratta di un fronte organizzato ma di una minoranza della minoranza. Il 95 per cento degli ex combattenti continua ad essere impegnato nella costruzione della pace.
Parla Rodrigo Londoño “Timochenko” l’ultimo leader combattente delle Farc. «Fuori dalla storia chi torna alla violenza Stop alla guerra anche grazie a Bergoglio»
Márquez e compagni sostengono che il governo abbia «tradito» l’accordo. È così?
Iván Márquez è stato uno degli architetti dell’intesa. Sa benissimo – così come gli altri – che essa è blindata dalla Costituzione e dalle leggi. Fino a quando in Colombia ci sarà una democrazia, sarà impossibile stracciarla. Di certo, l’attuale presidente non ci sta rendendo le cose facili. Tutt’altro. L’abbiamo denunciato più volte. Duque è vicino a quel settore ristretto dell’élite economica e politica che, fin dall’inizio, ha voluto sabotare la pace. Si tratta, però, di un gruppo esiguo, anche all’interno della classe dirigente. La gran maggioranza della popolazione è determinata a chiudere per sempre con il passato. Lo dimostra la nascita, lo scorso febbraio, del movimento “Defendamos la paz” che riunisce esponenti di ogni schieramento politico, del mondo della cultura, dell’arte e della società. Un gruppo plurale come plurale è la Colombia, unito da un medesimo obiettivo comune: edificare un Paese senza guerra. Lunedì, giornata nazionale per i Diritti umani e secondo anniversario del viaggio di papa Francesco, abbiamo scritto una lettera al Pontefice per esprimergli la nostra gratitudine per il prezioso contributo alla pace colombiana.
Il ruolo di Bergoglio è stato importante nel mettere fine alla guerra più lunga d’Occidente, durata 52 anni?
Molto importante. Per questo, non lo ringrazierò mai abbastanza. Il Papa ha sempre seguito con affetto le vicende colombiane ed è venuto da noi, dopo la firma dell’accordo, per aiutarci a compiere il «primo passo» verso la pace, come era il motto del suo pellegrinaggio. Nella lettera, gli abbiamo chiesto «di non distogliere lo sguardo dalla Colombia», specie ora che la situazione è tanto delicata.
A che punto è l’implementazione dell’accordo?
In alto mare. I problemi sono molti e complessi. Del resto, sapevamo che non sarebbe stata una passeggiata. Tra le questioni principali c’è la reintegrazione degli oltre 12mila ex combattenti. L’intesa prevedeva la realizzazione di progetti produttivi che offrissero loro alternative alla guerra. Al momento, però, ne sono partiti solo 24 che impiegano 1.200 persone. Il resto rimane in attesa. C’è, poi, lo scarso impegno del governo per fermare i gruppi paramilitari che stanno prendendo il controllo dei territori lasciati da noi. Con la violenza, ora, vogliono cercare di condizionare le elezioni municipali del 27 ottobre per impedire il cambiamento della Colombia verso un sistema più inclusivo e meno diseguale.
È pessimista sul futuro del Paese?
Al contrario, sono ottimista. Sono state le centinaia di incontri con vittime del conflitto – tutte le vittime, di ogni parte – a rendermi tale. È incredibile quanto chi più ha sofferto per la guerra, rifiuti di restare imprigionato nella trappola della violenza e sia aperto alla riconciliazione. Di recente sono stato a San Adolfo, nel Huila, per chiedere perdono alla comunità per la morte di quattro poliziotti, uccisi durante un attacco delle Farc del 2001. In quell’occasione, ho affermato che la pace è l’unica strada, la guerra è morte. Purtroppo, durante un conflitto, le situazioni sfuggono di mano, al di là dei propositi dei protagonisti. Per questo, non possiamo permetterci di tornare al passato. L’abbiamo e l’ho, in prima persona, promesso ai colombiani e alle colombiane che hanno versato sangue nel conflitto. Non tradiremo la loro fiducia.