Ciò che ci fa davvero grandi
martedì 5 marzo 2019

«Grandioso!». Sebbene sia "latino" di radici e di nascita, non è frequente che il Papa ricorra ad aggettivi forti e a superlativi assoluti per dare forma ai suoi pensieri. Per questo, quando lo fa è come se volesse scuotere l’attenzione e mostrare meglio ciò che a lui è evidente, ma che forse ai suoi interlocutori – a noi – sembra sfuggire: com’è possibile, pare dirci, non ve ne siete accorti?

L’occasione nella quale Francesco ci ha messi davanti allo specchio – passata un po’ inosservata, ma della quale vale la pena tener nota – è capitata sabato 2 marzo durante l’udienza all’Associazione italiana contro le leucemie che, pur laica, ma come tante altre realtà analoghe d’impegno sociale silenzioso e diffuso, ha voluto celebrare un proprio anniversario significativo come i 50 anni di fondazione incontrando il Papa (e questo è già un indizio). «Vorrei dirvi una cosa – ha detto il Santo Padre di slancio, interrompendo la lettura del suo discorso evidentemente per dare più enfasi a qualcosa che gli urgeva dentro –. Una delle cose che più mi ha toccato quando, sei anni fa, sono arrivato a Roma, è il volontariato italiano». Chi diventa "figlio" di questa terra impara in breve a stupirsi di una presenza operosa e discreta, ma onnipresente, instancabile, come attingesse a una riserva etica smisurata. Ma visto che per dare le proporzioni dell’intuizione non basta un fuggevole inciso, Francesco ha deliberatamente pescato un aggettivo più che sonoro – «grandioso!» – per esclamare e non solo dire una bellezza davanti alla quale si è trovato e che non può essere taciuta. Una bellezza "nostra", per di più, alla quale forse siamo a tal punto abituati da non essere più in grado di notarne – appunto – la "grandiosità".

Lo slancio del Papa però non era affatto esaurito: niente battute estemporanee, c’è dell’altro. Della sua meraviglia davanti alle schiere di associazioni che presidiano ogni aspetto delle necessità socialmente avvertite fa parte infatti anche una riflessione più ampia alla quale papa Bergoglio ha voluto dare adeguata voce, parlando a braccio con uno sguardo illuminato dalla consapevolezza: «Voi avete tre cose grandi che implicano un’organizzazione tra voi – ha aggiunto come il professore paziente davanti ad alunni un po’ distratti –: il volontariato, che è molto importante; il cooperativismo, che è un’altra capacità che voi avete, di fare cooperative per andare avanti; e gli oratori nelle parrocchie. Tre cose grandi. Grazie di questo». Sappiamo, noi italiani, di essere portatori sani di queste tre «cose grandi», che chi non è nato e cresciuto qui vede spiccare come un tesoro diffuso, indiscutibile e prezioso?

In senso generale, ci sentiamo persino orgogliosi di quel che ci connota in quanto italiani, ma probabilmente la terna indicata dal Papa non è uguale a quella che sceglieremmo per descrivere il meglio di noi stessi.

Eppure, dentro questo vivido ritratto che ci è stato reso con tre pennellate da pittore impressionista c’è un segreto sul nostro popolo forse scomparso a sguardi duramente provati da anni di polverone sul degrado della convivenza sociale e del dibattito pubblico. In altre parole, forse abbiamo lasciato che venissero enfatizzati fenomeni patologici indubbi ma ampiamente compensati dalla persistenza di un bene che non si lascia logorare, evidente e vivo solo che lo si voglia vedere. Un solo aspetto tra quelli citati da Francesco non basta per capire cosa ci stiamo perdendo di come siamo fatti e ciò che riusciamo ancora a esprimere con enorme sforzo ma con assoluta naturalezza, come per una virtù che ci è del tutto congeniale (e andrà poi capito bene il perché). È solo collegando i tre punti infatti che emerge il disegno. E se il volontariato è espressione del saper donare, la cooperazione è la forma del voler costruire, mentre gli oratori sono il luogo dell’educare. Tre verbi per altrettante qualità indivisibili e connaturate alle realtà cui danno vita come l’anima al corpo: questo organismo vivo di attività dentro la carne popolare della società italiana prende forma perché ci si sente chiamati a servire gli altri, a farlo insieme, e a mettersi 'in rete'. Ciò che proprio ieri, a Roma, hanno fatto pubblicamente i promotori e organizzatori di otto Festival «impegnati a migliorare il sistema socio-economico» italiano. Competenza e volontariato, idealità e concretezza, sperimentazione e fedeltà a valori cardine coniugati strettamente.

Tanti, tantissimi, sanno che non si fa da soli e non ci si salva da soli, che nessuno è destinato a essere solo o a restare non visto o inascoltato. È il frutto di una sapienza cristiana e civile che rende chiaro che a tutto c’è una risposta e una soluzione, per tutto c’è un percorso verso un obiettivo di sviluppo umano, di solidarietà e sostenibilità, di vera e serena democrazia, di giustizia grazie al moto perpetuo di una speranza che nulla riesce a estinguere: né rancore, né indifferenza, né ideologia, né propaganda. Perché c’è qualcosa del modo in cui siamo fatti come italiani che è l’esatto contrario di altri, tristi ed egoistici stereotipi fin troppo ripetuti e persino acclamati. C’è qualcosa in noi che non si lascia illudere né piegare: è il volto della persona umana che si desidera incessantemente valorizzare e servire. Secoli di storia ci hanno insegnato a scorgervi il bene necessario e possibile qui e ora, e una luce che splende all’infinito.

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