Soccorrere a prescindere
martedì 14 febbraio 2023

Dinanzi a un evento così catastrofico come il terremoto che ha sconvolto Turchia e Siria, davanti alle decine di migliaia di morti e dispersi, se vi era una domanda su cui non dovevano esservi dubbi nel rispondere era proprio il dilemma se togliere o meno le sanzioni al regime del dittatore siriano Bashar Assad per favorire i soccorsi. Si chiamano aiuti umanitari proprio perché hanno a che fare con la solidarietà umana, al di là delle ideologie e degli interessi geopolitici.

Gli Stati Uniti, dopo giorni di incertezze, hanno iniziato ad i primik allentamenti delle misure che puniscono Damasco e che sono state congeniate, al di là delle giustificazioni ufficiali, per impedire la ricostruzione della Siria dopo la vittoria militare sul campo di Assad e dei suoi protettori russi e iraniani. È giusto pensare e dire tutto il peggio sul crudele dittatore siriano, ma è altrettanto inevitabile sottolineare come le sanzioni imposte dall’Occidente in questi anni abbiano colpito duramente più una popolazione civile, già provata da un decennio di guerra civile, che l’élite al potere. E non forse sempre così con le sanzioni? Annunciate per punire i regimi colpevoli di crimini internazionali, finiscono inevitabilmente per infierire sulle popolazioni che vorremmo aiutare.

Una delle ragioni avanzate da chi esita a inviare aiuti ai siriani è che così si rafforza Assad e si alimenta l’enorme corruzione del suo regime. Una “profezia” fin troppo facile: in tutto il mondo si specula sulle tragedie e sulle emergenze; gli esempi sono innumerevoli e a tutti i livelli, dagli interventi delle missioni Onu ai recentissimi scandali delle speculazioni fatte da politici e militari ucraini sugli aiuti occidentali nella guerra.

È certo che ora in Siria vi saranno profittatori e che, peggio ancora, Damasco cercherà di convogliare il grosso degli aiuti nelle zone a fedeli al regime, penalizzando la regione di Idlib, ove si sono rifugiati i suoi oppositori. Ma solo la malafede o la completa ignoranza di chi comandi in quella regione, può indurci a pensare che inviare direttamente gli aiuti a Idlib eviti tutto ciò. Quella regione è infatti per lo più nelle mani di bande jihadiste rivali, vicine ad al-Qaeda o al Daesh; le violenze, i taglieggiamenti, gli abusi sono all’ordine del giorno, come possono testimoniare le famiglie cristiane che sono riuscite a sfuggire a quelle violenze. La verità è che l’Occidente aveva scommesso sulla caduta di Assad e ha perduto.

E per calcolo geopolitico preferisce non favorire la ricostruzione di un Paese devastato. A costo di lasciare nel limbo dei campi profughi milioni di siriani. Esitare nell’inviare gli aiuti perché a Damasco regna un dittatore che non ci è amico (se fosse amico, l’essere dittatore non sarebbe un problema, come si vede dagli accordi che ogni giorno l’Occidente stila in Medio Oriente) significa porsi sullo stesso piano della figlia di Assad, che ha esortato a non soccorrere i ribelli.

Ma sarebbe mai possibile pensare che un bambino vivo estratto dalle macerie sia una gioia minore se la sua casa era in una zona controllata da chi ci è ostile? Un’altra motivazione ribadita in questi giorni è che il dittatore possa usare gli aiuti come arma di ricatto e condizionamento. Sì, è probabile che lo voglia fare; ma non è quanto hanno fatto tanti dittatori nella regione durante la pandemia, quando hanno rafforzato il loro controllo sulla società sfruttando l’emergenza sanitaria? Non ultima la leadership algerina, a cui l’Italia guarda con tanta simpatia da quando abbiamo bisogno del suo gas, per ridurre la dipendenza dalla Russia. La risposta è cercare di aumentare i controlli su dove finiscono i nostri aiuti, non evitare di farli partire.

Se riuscissimo davvero a mettere da parte i calcoli geopolitici dinanzi a questa nuova catastrofe, avremmo il coraggio di tentare di fare leva proprio sugli aiuti per spingere Damasco a essere meno cinica e brutale. Soccorrere a prescindere nell’immediato, per avviare un programma di sostegno a tutta la popolazione siriana per una ricostruzione che spinga il regime – con i processi cosiddetti step by step, un passo io e un passo tu – a politiche meno settarie. Avere il coraggio di costruire una Siria migliore per le donne, i bambini e gli uomini che la abitano partendo dal basso, dalla loro vita quotidiana, per rendere più credibili le nostre scelte geopolitiche.

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