Il documento che la Santa Sede, tramite il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, ha indirizzato al Sesto Forum Mondiale dell’Acqua ha un titolo secco e concreto e un sottotitolo arguto e malizioso. Il titolo «Acqua, un elemento essenziale per la vita - Impostare soluzioni efficaci», infatti, è seguito a ruota da due puntute parole: «Un aggiornamento».Tanto basta, infatti, per richiamare alcuni elementi essenziali del problema. Eccoli, in sintesi. Primo: quella delle risorse idriche e della loro equa distribuzione è ormai questione di lungo periodo. Il Consiglio mondiale dell’acqua ha cominciato a operare già a metà degli anni Novanta e nel 2005 l’Onu ha indetto un «decennio per l’acqua per la vita» ormai avviato a scadenza. Secondo: a dispetto di questo, la situazione non migliora quanto dovrebbe. Il documento afferma senza giri di parole che «le cifre della sete sono sottostimate», a cominciare dalle più note, cioè quelle diffuse dall’Onu. Tra 800 e 900 milioni di persone non hanno acqua pari ai bisogni o dispongono di acqua di pessima qualità. Ma se adottiamo un criterio appena più stringente («Un accesso regolare e costante ad acqua potabile che sia accessibile economicamente, legalmente e di fatto, e che sia accettabile dal punto di vista della fruibilità») la cifra raddoppia e si arriva a circa due miliardi di assetati. Quasi un terzo della popolazione mondiale.Perché, dunque, non si è ottenuto il riconoscimento formale del diritto all’acqua potabile quale diritto umano fondamentale e inalienabile per cui la Santa Sede si batteva già al primo Forum Mondiale dell’Acqua (Kyoto 2003), che ribadì nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa nel 2004 e che, se realizzato, avrebbe dato ben altra base morale e giuridica a una battaglia decisiva per il benessere dei popoli e la salute del pianeta? Le cause sono molte, non difficili da individuare. Le battaglie della politica internazionale, che non esita a usare le fonti come arma di conquista o di dominio. La visione mercantilistica della gestione delle riserve, spesso attenta solo al profitto e non alle valenze sociali, e che pure non va confusa con attività finalizzate al reddito, legittime anche in questo settore quando ben regolate. Una carenza di governance internazionale, capace di orientare l’azione verso il bene comune mondiale.Ma la causa delle cause è definita ancora una volta con chiarezza: «Lo scollamento fra finanza ed economia reale, tra profitto e sostenibilità». Non più l’uomo al centro di ogni cosa, ma il denaro. Con le conseguenze che sappiamo: l’esclusione di masse umane sempre più vaste dal godimento dei beni naturali, a ognuno garantiti fin dalla Creazione; e lo sfruttamento indiscriminato delle risorse ambientali. Al primo punto va la realtà dipinta dalle ricerche dell’Organizzazione mondiale della sanità, secondo cui l’84% delle persone prive di regolare accesso all’acqua potabile (categoria in cui rientra quasi metà della popolazione mondiale) vive in zone rurali. Al secondo, la non equa distribuzione (e in molti casi lo spreco) delle riserve idriche si affianca alla consunzione delle terre fertili (il 25% della superficie agricola mondiale è ormai esausta), mentre diventa impellente produrre più cibo, e distribuirlo meglio.Ecco che il documento della Santa Sede, allora, chiede a tutti un passo avanti verso politiche basate sulla sobrietà nei consumi e la solidarietà nel benessere. E avanza una proposta: una tassazione sulle transazioni finanziarie per sostenere gli investimenti necessari a garantire il diritto all’acqua. Una "tassa di scopo" precisa, facile da esigere e concreta. Un gesto coraggioso che voci importanti, anche qui in Italia, hanno già dichiarato di voler compiere e appoggiare. E che qualche miliardo di persone si merita.