Sicurezze incrinate, «pietas» perduta: smemoratezza chiama smemoratezza
martedì 27 dicembre 2016

Caro direttore,

amarezza. Amarezza è l’unica parola capace di esprimere quel che provo sulla cronaca relativa all’uccisione del terrorista a Milano. Certi titoli di quotidiani mi hanno davvero schifato: un uomo morto, qualunque cosa abbia fatto, ha diritto alla pietas che spetta a chiunque ha lasciato questa Terra. Inoltre non credo che possano definirsi eroi due poliziotti che durante lo svolgimento del loro lavoro si imbattono in un criminale che li assale e che li costringe a sparare e a uccidere. Dovrebbero piuttosto essere tutelati e accompagnati a gestire una situazione dove loro malgrado si sono trovati nella necessità di uccidere un uomo. Il becero odio espresso verso il terrorista e l’esaltazione eroica dei due poliziotti ha tanto il sapore dell’appiattimento, di media ed istituzioni, su posizioni indegne del nostro sistema valoriale e che in aggiunta finiscono per fornire un sostegno teorico alla ingiustificabile follia terrorista.

Alessandro Cerboni

Gentile direttore,

mentre in una biblioteca di Parigi redigevo una bozza per il mio dottorato in filosofia all’École Normale, dando un’occhiata alle notizie su twitter, ho letto un commento ripugnante. Un noto giornalista di “Repubblica” ha scritto: «Non si dovrebbe mai gioire per una morte, ma qualche volta è lecito fare un’eccezione. Ben fatto, ragazzi». Ritweet, like, commenti. Mi sembra che questa frase esprima bene il senso di una “fine”, quella della cultura occidentale di sinistra sotto i colpi della sua stessa ignoranza e debolezza; un fallimento condiviso. E mi sconvolge quanto e più dell’attentato perpetrato a Berlino da Anis, giovane di origini tunisine. Il senso di vendetta, l’intolleranza e la mancanza di riflessione contenute in così poche righe uccidono l’intelligenza, uccidono la cultura. Questo commento è il chiaro sintomo che, se la sinistra è questa, la sinistra non c’è; la sinistra come progetto culturale è fallita e anzi, se queste sono le sue ultime espressioni, si può considerare più nociva della destra estrema e populista. Ho guardato la foto da morto di Anis Amri: disteso per terra, il petto scoperto, degli aghi nel braccio, inerte. L’opinione pubblica, come me, ha potuto guardare il corpo del mostro, del male nientificato. Quel corpo mi ha ricordato quello di mio fratello, 25 anni. Se si osservano attentamente gli occhi di quel giovane volto è possibile provare pena. È possibile scorgerne la solitudine di un ragazzo disorientato e quindi fragile. Gli occhi di chi è arrivato in un continente che si chiude a riccio di paura, che si muove secondo ondate di emozione. Accoglienza, rifiuto, rabbia, risentimento, frustrazione, vendetta... emozioni non raccolte nella forma di un progetto culturale, religioso o politico, ma disperse nel quotidiano gioco balordo degli incontri e degli scambi. Un luogo in cui i ragazzi nati su questo stesso continente faticano a trovare una strada, delle guide, dei riferimenti, un lavoro, una cultura o una storia di riferimento. Ho pensato che Anis ha quasi la mia età, che il 22 dicembre avrebbe compiuto 24 anni. Ho pensato alla sua famiglia, alla sua storia di rifugiato. Ho pensato a quanti soloni e a quanti ignoranti intolleranti deve aver incontrato sul suo cammino. Ho pensato alla sua solitudine e alla sua rabbia. Ho cercato di immaginare come deve essere stato accolto in Italia, e poi in Germania, dove il populismo, e quindi certi commenti corrosivi, sono la normalità. Ho guardato Anis steso per terra e non gioisco della sua morte, non lo faccio perché provo compassione per lui come provo compassione per Fabrizia di Lorenzo, anche lei ha solo qualche anno più di me e anche lei, come me, ha lasciato l’Italia, nella speranza di trovare occasioni altrove, dove è possibile fondare radici. Grazie per l’attenzione.

Anna Bonalume

Caro direttore,

capisco la soddisfazione delle nostre Autorità, e l’incoercibile impulso politico di farsene un merito per l’intervento dei bravi poliziotti di Sesto San Giovanni, però rendere nota la loro identità vuol dire renderli esposti al rischio di fare la fine del commissario Luigi Calabresi.

Silvio Ghielmi

Comprendo tutte le sfumature della vostra amarezza, gentili e cari amici, e le sento in gran parte mie. La perdita o anche solo la svalutazione delle nostre radici (la «storia di riferimento», di cui parla con appassionata lucidità Anna Bonalume) ci spingono verso una nuova barbarie, che è smarrimento del grande e vivo lascito della cultura generata dall’incontro – parola di Benedetto XVI – tra Gerusalemme, Atene e Roma e resa feconda da quella pietas religiosa e civile che ha dato anima (e alfabeto comune) a generazioni di europei pur lungo secoli di arcigne contrapposizioni e di drammatiche divisioni. Sicurezze incrinate (sociali e di ordine pubblico) e pietas perduta sono parte di una stessa crisi. All’interno della quale non sottovaluto, certo, il peso dell’allarme scatenato dalla minaccia terroristica nella versione armata dall’ideologia jihadista, ma cerco di non dimenticare che se rinunciamo ai nostri valori e al nostro sguardo sull’umanità e sul mondo finiamo per consegnarci a una follia odiosa che del jihadismo è parente prossima. E chi gode per la morte di un uomo è uomo di morte. Mi sembra giusto partire da qui, in questa breve nota in forma di risposta alle vostre lettere. Ma non vi nascondo, gentili e cari amici, di essere soprattutto preoccupato per l’eccessivo cono di luce concentrato sui due agenti delle Forze dell’ordine italiane (e addirittura sulle loro famiglie) protagonisti del conflitto a fuoco che, a Sesto San Giovanni, ha fermato definitivamente la corsa del giovane tunisino autore del feroce attentato di Berlino. Smemoratezza chiama smemoratezza. Sembra che abbiamo dimenticato, o messo tra parentesi, anche una parte importante della lezione dei nostri “anni di piombo”, esponendo a rischi ulteriori, ingiustificati e ingiustificabili coloro che sono incaricati di presidiare la sicurezza pubblica. La retorica e i clamori sono nemici dell’umanità e del rispetto umano per ogni persona morta, ma anche del più efficace contrasto al terrorismo in ogni sua forma, a maggior ragione questa alimentata dal fondamentalismo islamico. Vorrei essere molto chiaro su questo punto: non credo che così facendo si dia paradossale sostegno alla follia jihadista, ma che le si diano bersagli. E questo non può e non deve accadere. Ognuno di noi – politici , cronisti, intellettuali, cittadini... – dovrebbe avere ben chiara la responsabilità che porta.

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