Si va alla carica ma senza certezze
giovedì 26 settembre 2019

«Vorrei che ci facessi un favore... Mi piacerebbe che scoprissi cosa è successo in questa situazione legata all’Ucraina. Ci sono molte discussioni sul figlio di Biden, sul fatto che Biden ha fermato l’inchiesta. Qualsiasi cosa tu possa fare con il Procuratore generale mi piacerebbe che si andasse a fondo a questa vicenda». Forse non è ancora la famigerata 'pistola fumante', ma la conversazione telefonica di Donald Trump con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky resa pubblica ieri dalla Casa Bianca è bastata a far aprire la procedura di impeachment, di destituzione, da parte dei democratici.

«Lo marcheremo stretto e lo terremo permanentemente sotto osservazione», aveva promesso Nancy Pelosi all’indomani dell’esito delle elezioni di medio termine dello scorso novembre che confermavano il già previsto rovesciamento di fronte, assegnando ai dem la maggioranza della Camera dei Rappresentanti.

All’epoca la messa in stato di accusa del presidente era considerata un’avventura colma di rischi e difficilmente percorribile, nonostante lo scandalo Cohen-Manafort (fondi elettorali utilizzati per scopi privati e per il silenzio tombale di un paio di fotomodelle) e il sospetto di oscuri maneggi da parte del procuratore federale Robert Mueller (che di fatto alla fine non ha raccolto prove sufficienti a carico di Donald Trump). Per quasi un anno dunque la settantanovenne capogruppo democratico alla Camera ha faticosamente tenuto a freno il vasto manipolo – si parla di oltre la metà dei 235 deputati dem, dalla ventinovenne progressista Alexandria Ocasio-Cortez alla palestinese Rashida Tlaib del Michigan alla profuga somala Ilanh Omar del Minnesota al radicale Bernie Sanders del Vermont fino alla senatrice Elizabeth Warren per citare i più noti – che spingevano per l’apertura di una procedura di impeachmentnei confronti dell’inquilino della Casa Bianca.

Ed è proprio sulla prudenza e l’esperienza politica della Pelosi che Trump contava fino a ieri, confidando nel suo fiuto di giocatore di poker: la leader dei democratici sa bene che il complicato meccanismo della messa in stato di accusa «potrebbe ricompattare il consenso intorno al presidente, tanto da potergli consentire la rielezione nel 2020». È accaduto anche a Bill Clinton, che insieme a Andrew Johnson e a Richard Nixon ha condiviso fino a oggi il podio dei presidenti messi in stato d’accusa. E come acutamente osserva il Premio Pulitzer Jon Meacham nel suo Impeachment, An American History, se malamente maneggiato, l’impeachment gioca fatalmente a favore dell’accusato.

Ma ecco che d’improvviso esplode l’affaireZelensky, il giovane presidente ucraino, al quale Trump (con il fattivo apporto dell’ex sindaco di New York Rudy Giuliani) avrebbe ripetutamente chiesto di contattare il segretario alla Giustizia Barr per poter aprire un’indagine sul figlio dell’ex vice di Obama e possibile futuro sfidante Joe Biden, il quale avrebbe trescato per far rimuovere un procuratore di Kiev che indagava sulla società nel cui consiglio di amministrazione sedeva suo figlio Hunter. Non solo, la Casa Bianca avrebbe minacciato Zelensky – il condizionale è d’obbligo, anche se lo scoop è del 'Washington Post' e del 'Wall Street Journal' – di sospendere una tranche di aiuti militari all’Ucraina per 391 milioni di dollari.

Minaccia o blackmail (ricatto), poco importa: per la Pelosi «questa volta Trump ha tradito il giuramento che ha fatto quando si è insediato, ha tradito la sicurezza nazionale e ha tradito l’integrità delle nostre elezioni». E forse non è un caso (o forse sì) che poche ore prima che Pelosi annunciasse l’avvio della procedura l’editore del 'New York Times' Arthur Gregg Sulzberger pubblicasse sul suo stesso giornale una lunga e accorata quanto inusuale peroratio («The Growing Threat to Journalism around the World») sulla crescente minaccia alla libertà di stampa in tutto il mondo, con un’esplicita coda accusatoria nei confronti di Donald Trump: «Al contrario dei tanti presidenti americani, da Thomas Jefferson a John Kennedy a Ronald Reagan, che hanno sempre difeso il Primo emendamento, dubito che il presidente Trump abbia intenzione di mutare il suo atteggiamento nei confronti dei giornalisti. E questo è un rischio per tutti.

È tempo di ricominciare a batterci per i nostri ideali». Conclusione: la carica dei dem verso l’impeachment è iniziata e intercetta sentimenti diffusi in settori di opinione e opinion leader, non si sa quale impatto avrà sul cittadino statunitense medio. La Camera dei rappresentanti può stabilire a maggioranza se mettere il presidente in stato d’accusa (servono 218 voti su 435). Ma a decidere la sua sorte sarà il Senato, che attualmente è a maggioranza repubblicana e al quale occorrono due terzi dei voti per condannare Trump. Difficile, se non improbabile che possa accadere. «Sono solo fake news », dice lui. Ma la minaccia di impeachment – nessuno si fa illusioni – non è che un insidioso cavallo di Troia. Per la sfida del 2020.

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