Senza figli non c’è crescita. Lo dice oggi anche la Coop, lo scrivono da decenni diversi economisti (e non solo economisti cattolici), lo notava lo storico Polibio più di due millenni fa. Lo dicono le cifre del nostro Pil. Quello che gli studi più recenti stanno rendendo definitivamente evidente è che le dinamiche demografiche condizionano un sistema economico già nel cosiddetto "breve termine". Significa, più semplicemente, che non abbiamo bisogno di aspettare decenni per vedere gli effetti dell’assenza di figli sull’economia nazionale. Il prezzo della bassa natalità italiana lo paghiamo già oggi.Gli studi di Amlan Roy, responsabile delle ricerche demografiche per il Crédit Suisse e uno dei massimi esperti mondiali del rapporto tra economia e demografia, hanno prodotto risultati impressionanti. Secondo queste analisi l’invecchiamento della popolazione, conseguenza della carenza di bambini, rallenta il prodotto interno lordo, gonfia il debito pubblico (con problemi di conti nazionali e allargamento degli spread), fa calare gli investimenti, indebolisce l’efficacia delle politiche monetarie delle banche centrali. Esattamente quello che sta accadendo. Prendiamo anche quello che oggi in Europa è il problema dei problemi: il rischio di deflazione. Secondo uno studio di Patrick Imam, economista del Fondo monetario, l’avversione per l’inflazione è un naturale effetto dell’invecchiamento della popolazione: avendo grandi quantità di titoli, gli anziani hanno molto da perdere da un inatteso aumento dei prezzi che può svalutare il loro patrimonio. E, sarà un caso, ma in Europa ad avere più paura di un ritorno dell’inflazione è la "vecchia" Germania.
Non ci sono molte alternative per evitare il dannoso invecchiamento della popolazione: o gli italiani muoiono di più (e questo decisamente non è auspicabile) oppure fanno più figli. Ci sarebbe una terza via, l’importazione massiccia di gioventù attraverso l’immigrazione, sfruttando la povertà altrui, ma come stiamo sperimentando è una strada estremamente problematica. La questione va affrontata rapidamente. I numeri ci dicono che con un tasso di fertilità di 1,39 figli per donna, tra i più bassi d’Europa, non abbiamo molto tempo a disposizione per evitare che il Paese muoia di vecchiaia e, conseguentemente, di povertà. Il 2013 ha fatto segnare il minimo storico di nuovi nati: 514mila. L’emergenza è più evidente che mai; il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, proprio dalle pagine di Avvenire ha promesso il lancio di un grande piano per la natalità. È chiaro che sarà, soprattutto, una questione di risorse. Risorse che oggi l’Italia investe altrove. Dei 416 miliardi di euro di spesa pubblica italiana per le politiche sociali nel 2011, il 49,9% è andato a politiche per gli anziani, il 23,8% alla sanità e solo il 4,6% alle politiche per la famiglia e l’infanzia. Le cifre raccolte dall’Eurostat dicono che le nostre sono le politiche sociali più "vecchie" d’Europa: nella media delle nazioni dell’euro agli anziani va il 37,2% della spesa sociale (cioè quasi un terzo in meno) mentre alla famiglia va il 7,6% (quasi il doppio).
Finita in questa "trappola della natalità" – in cui il presente scoraggia la messa al mondo di figli e il declino demografico che ne consegue favorisce la stagnazione, rendendo più difficile investire sul futuro – l’Italia ha urgentemente bisogno di una spinta per uscirne. Le strade possibili per incentivare economicamente la natalità, dal quoziente familiare al potenziamento degli assegni o delle detrazioni per i figli, fino alle misure per agevolare l’accesso ai servizi, sono molte e discusse, purtroppo poco battute. Il governo ha chiaro il problema. Il premier Matteo Renzi ha assicurato che nell’ambito della delega fiscale punterà a trovare il modo per aiutare le famiglie con figli, da sempre penalizzate. E mentre i tecnici sono al lavoro per rastrellare le risorse necessarie a confermare il bonus di 80 euro ai lavoratori dipendenti, una discussione riguarda proprio la possibilità di estenderlo a una parte dei nuclei "numerosi". I margini sono strettissimi. A meno di non ribaltare le priorità, mettendo la questione demografica al primo posto.
Proviamo a partire proprio dal bonus di 80 euro. Perché non trasformarlo in un assegno per ogni figlio minorenne? I conti tornano. I beneficiari del bonus attuale sono 10 milioni di lavoratori dipendenti con un reddito compreso tra 8 e 25mila euro annui. La misura costa, a regime, circa 10 miliardi. Dal bonus sono stati esclusi gli incapienti, i pensionati e i lavoratori autonomi. La formula attuale, d’altronde, non ha avuto l’equità come caratteristica di fondo. Uno studio di Massimo Baldini, Elena Giarda e Arianna Olivieri pubblicato su lavoce.info ha dimostrato che a beneficiare del taglio fiscale sono state più le famiglie della classe media (il 50%) di quelle povere (32%), mentre gli importi hanno avvantaggiato più le famiglie con due stipendi, di nuclei monoreddito. Per fare un esempio classico: gli 80 euro sono stati incassati da una coppia con due stipendi, uno alto e uno di 1.500 euro, con un figlio a carico, e non invece da una famiglia con un solo reddito di 1.600 euro e più figli.
Il problema non è di poco conto, se si considera che la soglia della povertà assoluta in una città del Nord, per l’Istat, corrisponde a un reddito di 1.500 euro per una famiglia con due minorenni. Crescere un figlio nell’arco di una vita costa 170mila euro, quasi quanto una Ferrari. Se gli aiuti sono pochi la condizione economica precipita con l’aumento del numero dei figli. Così è, in Italia: l’incidenza della povertà, del 12,7% tra tutte le famiglie, sale al 15,7% in quelle con un figlio minore, al 20,1% con 2 minori, al 28,5% per chi ha 3 o più figli piccoli. Una distorsione acuita dalla crisi. Il rapporto Istat 2014 sulla situazione del Paese spiega che il peggioramento ha riguardato «le famiglie con minori, monoreddito, operaie, di lavoratori in proprio o con persone in cerca di lavoro». Una svolta è necessaria. Mantenendo come spunto l’idea di 80 euro al mese per ogni figlio, i soldi ci sarebbero. I minorenni in Italia sono 10 milioni, lo stesso numero dei lavoratori gratificati con il bonus, la spesa sarebbe dunque identica. Il numero di famiglie con minori interessate sarebbe di 6 milioni (5 milioni di coppie più un milione di genitori soli), il 37% dei nuclei, come per il bonus. Undici milioni di adulti di qualunque categoria lavorativa e fascia sociale vedrebbero entrare in famiglia almeno 960 euro l’anno con un figlio, 1.920 con due, e via dicendo. A guadagnare l’assegno sarebbero 4 milioni di persone finora escluse, tra incapienti, precari, autonomi, ceti medi. A perdere gli 80 euro, 4 milioni di lavoratori comunque non incapienti e senza carichi familiari. Uno scambio, che alzerebbe il tasso di equità della misura, con benefici per la crescita, attuale e futura, dell’economia italiana. Non è una proposta operativa – tornare indietro è difficile – ma uno spunto per discutere su cifre, bisogni, priorità e scelte politiche.
Senza figli non c’è futuro, dicono i manager dei supermercati. Senza figli la stagnazione è inevitabile, avvertono gli economisti delle grandi banche d’affari. La ricostruzione della fiducia in un Paese vittima di una "trappola della natalità" passa anche dalla volontà di riprogettare il presente a partire dai bambini. Uno slogan? «Mille bambini in più al giorno in mille giorni». Impegnarsi a trasmettere l’idea di uno Stato che non ostacola, ma incoraggia chi crescendo dei figli costruisce le basi per la crescita economica dei prossimi decenni, sarebbe un modo efficace per dare un significato ai sacrifici e lavorare a favore della speranza. «Tutto quello che si fa – ha scritto Charles Péguy – fa lo si fa per i bambini». O no?