Senso comune e buon senso
martedì 7 febbraio 2023

«Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune». A tanti di noi, in questi giorni di diatribe su caso Cospito e 41bis, è tornata in mente questa frase di Alessandro Manzoni a proposito della peste milanese, che molte volte ci è stata ricordata dalla saggezza di Liliana Segre.

Già: basterebbe tornare al buon senso per trovare una soluzione, mediando tra le varie esigenze che vengono sventolate come striscioni nello stadio. Infinite volte è stato ricordato: il 41bis nacque, come regime eccezionale e transitorio, nel tempo del furore che seguì le stragi di Capaci e via D’Amelio. Quando la possibilità dei boss mafiosi di impartire dal carcere ordini assassini (e dunque la necessità di impedire qualunque comunicazione con l’esterno) era qualcosa di tragicamente vero.

Sennonché, come quasi sempre avviene in Italia, di proroga in proroga, la norma transitoria ed eccezionale è diventata stabile. Soprattutto: la tavolozza dei reati per cui è possibile il provvedimento con cui il Ministro delle Giustizia sospende «l’applicazione delle regole di trattamento» e ogni misura alternativa si è ampliata a fisarmonica, seguendo i vari «allarmi sociali» su vecchi e nuovi fenomeni criminali, tanto da comprendere ora delitti incommensurabilmente meno gravi di quelli mafiosi.

Solo questa smisurata espansione può spiegare il fatto che oggi ci siano, in regime di 41bis, le 700-800 persone di cui ci viene dato conto. Che ci siano, in Italia, centinaia e centinaia di persone ritenute in grado, qualora comunichino con altri pur rimanendo dietro le sbarre, di attentare alla sicurezza nazionale è, di per sé, un dato che dovrebbe far pensare. Infine, le privazioni imposte ai detenuti in regime di 41 bis sono sempre più accanite e incomprensibili: il divieto di sentire musica, il divieto di tenere con sé foto dei propri familiari; una sola ora al mese di colloqui con un parente; un’ora d’aria quotidiana in “socialità”; libri rigorosamente contingentati; la presenza di un agente di polizia a qualunque tipo di visita medica, anche intima. Si tratta di divieti frutto di scelte amministrative e non imposte dalla legge (che, semplicemente, parla di «restrizioni necessarie per il soddisfacimento» delle esigenze di sicurezza).

È grazie a questa interpretazione della norma che il 41bis si è trasformato, anche nella comunicazione mediatica, in “carcere duro”. Carcere duro significa carcere come vendetta, carcere come annientamento della persona (come da decenni denunciano gli avvocati), carcere come strumento di pressione per indurre a “collaborazioni” con l’autorità giudiziaria.

Marcello Bortolato, giudice di sorveglianza di enorme esperienza (e autore di un libro – “ Vendetta pubblica. Il carcere in Italia” – che molti politici che vogliono “buttare via la chiave” dovrebbero leggere) ha dichiarato in un’intervista del 4 febbraio ad “Avvenire”: «Questo istituto va mantenuto, ma adeguato ai parametri europei e privato di restrizioni inutilmente vessatorie». Finalmente, un po’ di buon senso che non ha paura del senso comune! Questa davvero è la soluzione su cui possono convergere i sostenitori di posizioni apparentemente opposte.

Quella di chi vorrebbe l’abolizione sic et simpliciter del 41bis per tutti i reati, anche quelli di mafia (posizione che ha storicamente una sua legittimità posto che l’epoca della mafia stragista è superata; ma che politicamente non pare oggi percorribile). E quella di coloro che ritengono che è giusto che lo Stato possa differenziare i regimi di detenzione a seconda della pericolosità del detenuto e non debba “abbassare la guardia” verso una mafia che non è più quella del 1992 ma che vive come un cancro cangiante e sempre aggressivo. E poiché queste preoccupazioni vengono espresse da magistrati e funzionari dello Stato che, nei decenni scorsi, hanno affrontato enormi pericoli e sacrifici nel contrasto legale alla mafia, non possiamo essere sordi ai loro ammonimenti.

Attenuare ora le modalità di attuazione del 41bis significa forse cedere a un ricatto fatto allo Stato da un singolo detenuto? È bene guardarla da un’altra prospettiva: che l’enorme clamore suscitato dalla vicenda di quel detenuto serva all’urgente riflessione che da anni molti sollecitavano. E ci spinga a riportare un istituto tanto controverso nell’alveo della Costituzione e del suo articolo 27.

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