La latitanza del boss di ’ndrangheta Cosimo Damiano Gallace è finita ieri. I carabinieri lo hanno scovato nel paesino calabrese di Isca sullo Ionio, nascosto in un bunker dietro una specchiera, in un appartamento all’interno di un cementificio. A parte il ricorrente escamotage del bunker, rispetto ad altre primule rosse mafiose del passato il profilo giudiziario di Gallace pare minore: nessuna latitanza lunga (era ricercato da un anno); né condanne a ergastoli multipli (deve scontare 14 anni per associazione mafiosa) o epiteti alla 'capo dei capi' legati al ruolo di vertice, tanto che gli stessi inquirenti lo definiscono il 'reggente' dell’omonimo clan Gallace.
Se il suo arresto rappresenta comunque un’ottima notizia, un’altra – e non da poco – va letta proprio nel fatto che, ormai da qualche tempo, i reparti d’élite di Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza stiano catturando appunto i 'reggenti' di molte cosche sicule, campane, calabresi o pugliesi, visto che i boss titolari, per così dire, sono in moltissimi casi ormai in cella da tempo.
Per rendersene conto, si può dare un’occhiata alla pagina web dell’ «elenco dei latitanti di massima pericolosità», sul sito del Ministero dell’Interno. Attualmente contiene solo sei profili, con foto e succinto curriculum criminale: in testa a tutti, c’è il finora imprendibile Matteo Messina Denaro, detto u siccu (il magro), capo di cosa nostra condannato per strage e ricercatissimo dal 1993, in singolare compagnia di un altro boss siciliano, Giovanni Motisi u pacchiuni (il grasso) già killer dei corleonesi e latitante dal 1998. Accanto a loro due banditi sardi, Attilio Cubeddu e Graziano Mesina, e due boss di camorra, Renato Cinquegranella e Raffaele Imperiale. Quest’ultimo, narcotrafficante milionario (a casa sua vennero ritrovati perfino due Van Gogh rubati) presto potrebbe essere espunto dall’elenco perché, da fine agosto, «rintracciato in attesa di estradizione» da Dubai. Pertanto, i nomi potrebbero diventare cinque. Numero degno di nota, per chi ha memoria di queste cose. L’elenco, attivato dal 1992, ha infatti contenuto fino al 2009 stabilmente almeno 30 nomi: dai siciliani Totò Riina e Bernardo Provenzano, ai calabresi Pasquale Condello e Peppe Morabito u tiradrittu, ai camorristi casalesi Francesco Sandokan Schiavone, Antonio Iovine e Michele Zagaria, solo per citare qualche nome di peso... E quando uno di loro, o un altro super latitante, finiva in manette e poi in regime di '41bis', l’identikit veniva rimosso dalla lista e rimpiazzato da quello di un altro ricercato, prelevato da un secondo elenco di 100 nominativi.
Vale la pena ribadirlo: dopo tre decadi di indagini, catture, rogatorie ed estradizioni, sul sito del Viminale da trenta i latitanti di massima pericolosità sono scesi a sei. E anche la black list dei '100' è stata sfoltita: con le armi del diritto e la tenacia dei cacciatori, magistratura e forze dell’ordine sono riusciti a cancellare la maggior parte dei nomi. Vale per le mafie. E vale, per inciso, pure per l’eversione: è di aprile l’intesa fra la guardasigilli Cartabia e le autorità francesi per la riconsegna di alcuni condannati per terrorismo negli anni di piombo, per decenni riparatisi Oltralpe.
Attenzione, però. Il fatto che oggi l’elenco sia scarno, non vuol dire che la partita combattuta dallo Stato dal 1992 sia conclusa o stia per esserlo. Perché non è detto che oggi nomi e volti da cercare siano facili da individuare. Dopo gli anni dell’attacco stragista allo Stato e delle sanguinarie faide interne, le mafie si espongono meno. Fanno affari, soprattutto. E gli eredi dei boss spesso non sono killer, ma colletti bianchi, contabili, manager. Più che da bunker sotterranei, governano da uffici vetrati con segretarie e computer. Più che cercare covi segreti, chi indaga deve ricostruire assetti societari, guardare dentro scatole cinesi, seguire le labili tracce di cryptovalute e conti off-shore in paradisi fiscali. È un altro tipo di caccia, che i carabinieri del Ros, i poliziotti dello Sco e i finanzieri dello Scico conducono a entità del crimine 4.0, che sono difficili da inquadrare nello scarno elenco di cui dicevamo.
Quella lista online sul sito del Viminale, tuttavia, resiste ancora. E rammenta a tutti che lo Stato non rinuncia, non può rinunciare, ad alcuna caccia, in nome della giustizia, a partire da quella al boss di Castelvetrano, ultimo capo della cosa nostra che fu.