Non si può dire che la valle di Swat, nelle montagne che separano il Pakistan dall’Afghanistan, sia luogo di cui si ambisca parlare. Eppure, nel giro di poche ore, ecco due notizie che arrivano proprio da lì. Prima notizia: un capo taleban locale, certo Shah Durran, ha usato una radio clandestina per intimare alle famiglie della zona di non mandare più a scuola bambine e ragazze, pena l’uccisione delle alunne e la distruzione delle scuole che manterranno i corsi femminili oltre la data limite del 15 gennaio. Seconda notizia: a causa della tensione tra India e Pakistan, più che mai ai ferri corti dopo gli attentati di Mumbai, il governo di Islamabad ha ridotto le operazioni contro i taleban nella valle di Swat per spostare parte delle proprie truppe verso il confine con l’India. Tra i due fatti c’è un legame assai più forte della coincidenza geografica. Certo, nel primo emerge, oltre a un’intolleranza che attinge a un’interpretazione religiosa retriva e crudelmente distorta, l’ansia di controllo di un capo che preferisce massacrare il proprio popolo piuttosto che lasciarlo libero di scegliere una strada diversa. E nel secondo vediamo riproporsi un’ostilità tra grandi nazioni che risale al 1947, alle fasi convulse dell’indipendenza dell’India e dell’autonomia del Pakistan, alle questioni territoriali irrisolte (il Kashmir), a un problema politico e sociale (i 70 milioni di musulmani che vivono in India) mai davvero affrontato. Ma ciò che realmente succede è questo: quando le nazioni scelgono il confronto e lo scontro, lasciano dietro di sé sacche di intolleranza ed estremismo a cui la distrazione dei 'grandi' agevola il compito, fino al punto in cui ciò che pareva una questione marginale o secondaria s’innalza al rango di problema globale. È il ritratto dell’Afghanistan di questi ultimi anni. Cacciati i taleban e dispersi i gruppi terroristici che là si annidavano, le nazioni occidentali si sono divise (sull’Iraq e non solo) e non hanno portato a termine l’opera che pure era già per metà compiuta. I taleban (o ciò che con questo nome ormai designiamo: narcotrafficanti, signori della guerra, guerriglieri, banditi da strada, fondamentalisti dell’islam, servizi segreti deviati, tutti quelli a cui non conviene un Afghanistan stabile e ben governato) hanno pian piano ripreso fiato e spazio e, da questione ridotta ai minimi termini nel 2001-2002, sono tornati a essere motivi di preoccupazione globale. E infatti l’India oggi rimprovera al Pakistan proprio di non aver fatto abbastanza per fermare i terroristi che si sono accaniti contro Mumbai. Su questa base oggi muovono le loro truppe due giganti asiatici che, oltretutto, dispongono della bomba atomica. È una lezione, amarissima, che dovremmo far nostra proprio in questa vigilia del 2009 che prepara il passaggio di consegne tra George Bush e Barack Obama. Otto anni di politica muscolare ci hanno insegnato che la divisione delle nazioni sviluppate, progredite e liberali è il peggiore dei mali. Al contrario, la loro azione coordinata e congiunta riduce ai minimi termini il raggio d’azione degli estremisti di ogni genere e specie. È dunque lecito sperare che si torni a una politica per la pace che abbia respiro globale e i tratti di un’azione concertata e non imposta. Solo questo, non le bombe o i quattrini, potrà poi spingere l’India a ragionare e il Pakistan a fare i conti con quell’area tribale a cui, per ignavia e miopia, ha concesso di trasformarsi un una riedizione dell’Afghanistan talebano.