Del Covid ormai sappiamo tutto. Al netto della sorprendente, imprevedibile contagiosità di Omicron 5, la sottovariante responsabile della fiammata estiva di contagi che stiamo vivendo (non solo in Italia). E questo è il primo, imprescindibile elemento che andrebbe tenuto presente quando – sta succedendo sempre più spesso in questi giorni – tentiamo paragoni con quello che è accaduto due anni fa, all’inizio della pandemia. Sappiamo come ci si contagia: tramite aerosol, stando molto vicini e a contatto con persone positive, soprattutto in luoghi al chiuso, ma anche all’aperto, in grandi assembramenti dove è impossibile mantenere la distanza di almeno un metro da chi ci circonda. Sappiamo come si può evitare il contagio: usando la mascherina Ffp2 in tutte le situazioni in cui non riusciamo a mantenere la distanza di cui sopra.
Sappiamo come riconoscere la malattia: febbre o febbriciattola, mal di gola, raffreddore, senso di spossatezza. Sappiamo quando e perché è importante fare un tampone: per stabilire se i sintomi che abbiamo appena elencato sono riconducibili effettivamente al Covid e per evitare di trasmetterlo a chi ci sta accanto. Sappiamo chi è a rischio di finire in ospedale e di morire anche: gli anziani e i grandi anziani, soprattutto se già acciaccati (come nella stragrande parte dei casi nel nostro sempre più vecchio Paese), i più fragili (malati cronici o immunodepressi), gli obesi e le persone in sovrappeso. Sappiamo che il vaccino, gratuito e accessibile a tutti, fa la differenza: chi non lo ha fatto va incontro facilmente (7 volte più facilmente, in base agli ultimi dati aggiornati dall’Istituto superiore di sanità proprio ieri) alla morte rispetto a chi la profilassi l’ha completata, soprattutto con la dose aggiuntiva booster. Sappiamo che anticorpi monoclonali e antivirali, di cui siamo dotati, aiutano: se somministrati entro 5 giorni dal contagio ai più vulnerabili possono attenuare il decorso della malattia.
Di tutte queste certezze le autorità sanitarie e politiche hanno fatto tesoro nel corso dei mesi, decidendo via via – e giustamente – per un graduale ritorno alla normalità, nell’ottica di un appello alla responsabilità individuale. L’Italia, a dire il vero, è stata persino criticata per l’eccessiva prudenza rispetto ad altri Paesi, dove le mascherine sono scomparse anche a scuola già a primavera e dove si è persino abolito l’obbligo di isolamento per i positivi, da noi ancora vigente (e oggetto di aspri scontri).
Ora da più parti ci si sta chiedendo se non si sia fatto tutto troppo in fretta, se rimuovere l’obbligo di mascherina e cancellare i limiti alle capienze ai grandi eventi non sia stato azzardato, se (e come) potremo e dovremo tornare a eventuali nuove restrizioni qualora il Covid dovesse tornare a riempire gli ospedali, oltre che a correre nel Paese come sta già facendo. Perché il punto vero è quanto o quanto a lungo il nostro Sistema sanitario sarà in grado di reggere a una ripresa così copiosa dei contagi, che significa anche una ripresa dei ricoveri, soprattutto nei reparti ordinari (vista la nuova, più blanda sintomatologia di Omicron).
Sia chiaro subito: siamo lontanissimi dall’emergenza vissuta in passato. In Italia siamo arrivati ad avere, nei tempi più bui, 4mila posti letto occupati nelle terapie intensive contro i 275 di oggi (l’anno scorso, nonostante l’epidemia stesse implodendo in questo periodo, ne avevamo 213). Ma è chiaro che se l’impennata dovesse diventare ingestibile sul piano sanitario, intasando i reparti e arrivando a bloccare di nuovo le attività ordinarie, da qualche parte bisognerebbe pur ricominciare a tirare freni e cinghia. Ecco, sapevamo anche questo. Sapevamo che l’anello debole della catena erano gli ospedali, con la carenza cronica di personale e la mancanza di spazi in cui organizzare pazienti positivi e pazienti negativi.
Sapevamo – e quante volte l’abbiamo sentito ripetere – che serviva un nuovo modello di sanità territoriale, anche artigianalmente organizzato con unità di intervento domiciliari (le famose Usca, che non a caso adesso vengono richiamate in servizio) e micro-hub a integrazione degli ospedali (ne sono stati creati alcuni da Nord a Sud) in grado di rispondere alle più semplici e frequenti richieste di aiuto: «Ho la febbre e la tosse, cosa devo fare?». Sapevamo tutto e abbiamo fatto poco e niente, in due anni e mezzo, a parte mettere a menù del Pnrr una riforma della sanità i cui tempi di realizzazione sono incompatibili con quelli del Covid, capace nel giro di un mese di sparigliare le carte e farci rimettere tutto in questione. Abbiamo tolto le mascherine troppo presto, dunque? Sì, forse. Meglio rimetterle? Sì, senz’altro, specie chi rischia e dove si rischia. Ma se non siamo in grado di gestire il Covid ancora, al di là degli obblighi e delle restrizioni alla nostra vita sociale e a quella dei nostri figli (che tra l’altro nessuno di noi e di loro potrebbe più tollerare) è perché pur sapendo tutto del virus non abbiamo messo in campo le misure strutturali che permettano di conviverci.