Quello di Placido Domingo è un dramma: all’Arena di Verona è stato contestato dai suoi stessi orchestrali come immeritevole di applausi, impreparato, poco professionale. Deve ritirarsi. Ma sarebbe stato meglio se si fosse ritirato prima.
Quand’è che chi ha l’amore del pubblico, l’ammirazione della critica, deve smettere? Uscire dalla luce e rientrare nell’ombra? Io non sono un cantante, non mi esibisco nei teatri, ma so che i teatri sono ubriacanti, che l’attore che sale sulla scena e si vede illuminato dai riflettori e vede il pubblico sparire in sala ingoiato dal buio e capisce che l’unica persona visibile e vista è lui, ha un attimo di annebbiamento, teme di non essere nel vero, teme di risvegliarsi e scoprire che era tutto un sogno. Invitato da un’associazione culturale nazionale anni fa, decenni fa, ho fatto un giro per i teatri italiani, tenendo una conferenza su un tema allora scottante, 'Il terrorismo e la cultura': l’associazione riuniva i principali teatri italiani, da Milano a Bari, e il pubblico era pagante. Per ascoltare la conferenza, c’era un prezzo e c’era un biglietto. Ho trovato un pubblico dappertutto numeroso, e sono convinto che venivano in tanti perché si pagava. Fosse stato gratis, non veniva nessuno. Una conferenza gratis dà l’idea che l’oratore dice sciocchezze, che non hanno nessun valore sul mercato. Se volete avere un valore fatevi pagare. Se non vi fate pagare non valete niente. In alcuni teatri il pubblico che voleva entrare era così numeroso che non ci stava tutto, una parte veniva rimandata indietro. Il pubblico, nell’attesa, rumoreggiava. Io venivo da dietro la tenda, mi presentavo sulla scena e mi sedevo. Il pubblico ammutoliva, spariva nel buio e i fari illuminavano me. Si realizzava una specie di delirio: non vedevo nessuno, ma dovevo parlare come se ci fossero tutti. È la condizione dell’attore. Barcolli, sragioni. Ma devi restar lì, ed esibirti. Ti senti importante. Senti che tutti vedono solo te e si dimenticano di sé. Tu sei, loro non sono.
La vita dell’attore e del cantante sta nel continuare ad essere, aiutando il pubblico a non essere. È stata la vita di Placido Domingo. Perché tu sia, devi essere perfetto. Non devi sbagliare una nota, una sillaba, un gesto. Se posso aggiungere un’altra considerazione, non devi sbagliare neanche nella vita privata: non puoi rubare in tram, picchiare in casa, violentare una donna, essere condannato in tribunale, perché la tua nuova figura di autore di un reato copre e oscura la tua figura di artista. Di recente Domingo è apparso nelle cronache per molestie sessuali.
E nel grande teatro dell’Arena di Verona ha avuto qualche vuoto di memoria, l’ha riempito con un po’ di ritardo, e il pubblico, il pubblico a lui devoto, era pronto a perdonarlo ed applaudirlo, in nome dell’antica devozione, ma nel teatro c’erano altri che pativano le sue imperfezioni come proprie imperfezioni, e non gli perdonavano di condurli a sbagliare. Erano gli orchestrali. Dopo una sua esibizione imperfetta, se il pubblico applaudiva per antica gratitudine, e loro dovevano alzarsi in piedi grati per la gratitudine, all’Arena han rifiutato di alzarsi, perché sentivano di non meritare gratitudine. Allora, quand’è che Domingo avrebbe dovuto smettere? Ben prima, quando il pubblico si alzava, non convintissimo ma si alzava. Quand’è che uno scrittore non deve più scrivere libri? Quando i critici gli fan capire che non sono più libri, non sono opere. Son prodotti, magari fanno un po’ di soldi, ma non durano. Se si fosse ritirato al tempo della grandezza, Domingo sarebbe restato grandissimo. Ha aspettato di essere contestato, e grandissimo non lo è più.