Giotto, San Francesco dona il suo mantello a un povero / Assisi, Basilica superiore - .
Le Laudes Creaturarum di Francesco d’Assisi sono, secondo molto studiosi, il primo testo della letteratura italiana. L’opera, composta nel 1224 e meglio nota come Cantico delle Creature, è scritta infatti volutamente non in latino, la lingua dei dotti dell’epoca, ma in volgare umbro. San Francesco non desiderava rivolgersi in primis ai dotti, né men che meno comporre un’opera per mostrare la sua raffinata cultura: voleva invece condividere un testo di potente spiritualità con gli ultimi, con la gente del popolo. La sua gente. L’opera è di una potenza straordinaria fin dall’incipit: Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione. Ad te solo, Altissimo, se konfano, et nullu omo ène dignu te mentovare.
Il Signore è onnipotente, buono, degno di ogni lode, onore e benedizione. Nessun uomo è degno di nominarlo, le lodi si addicono solo a Lui. Già sono evidenti gli echi biblici che intessono questo straordinario testo. Subito dopo, Francesco inizia a lodare diverse creature: il sole, la luna, le stelle. E poi il vento e ogni tipo di tempo atmosferico. Questo passaggio mi colpisce sempre particolarmente: Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento.
Mi torna in mente una visita a un monastero russo, tanti anni fa, dove ci dissero che una delle principali colpe per i monaci, una di quelle per cui si ricevevano durissime punizioni, era lamentarsi del tempo atmosferico. Attraverso di esso, infatti, come dice San Francesco, il Signore provvede alle sue creature e le nutre. Molte estati fa mi capitò di andare a trovare un sacerdote che era stato in missione in Africa, da sempre amico della mia famiglia. Pioveva a dirotto. Io e l’amico con cui avevo viaggiato fino a lì eravamo irritati: speravamo di cogliere l’occasione per fare una gita su un vicino lago, e invece... . Ma quel sacerdote guardava fuori dalla finestra, felice come un bambino, e diceva: «Grazie, Signore! Che meraviglia questa pioggia! Noi ci lamentiamo, ma la pioggia è vita, nutre, fa germogliare. In Africa lo sanno bene, e tu ci doni questa abbondanza!». Sono parole che, in questi anni di cambiamento climatico anche violento, potrebbero a qualcuno suonare stonate. Eppure io sento in quel modo di guardare alla realtà una grande speranza, l’intuizione di una potente Provvidenza che ci accompagna e non ci lascia, nemmeno dentro le profonde contraddizioni della storia e della natura.
Quella profonda Provvidenza che Francesco sapeva ben cogliere se, alla fine del Cantico, riesce a lodare Dio anche per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare. Anche la morte, per chi si affida, non è la fine, ma è un passaggio del cammino, un nuovo sentiero su cui quella Provvidenza ci conduce.
Leggendo questi versi, e sentendoli interpretati in molti nuovi modi, mi sono sempre immaginato un santo contemplativo, con lo sguardo verso il cielo sereno, in mezzo a una natura ideale, una sorta di Eden pieno di fiori, uccellini e pacifiche creature. Questa è, in effetti, la fuorviante visione che molti hanno di San Francesco, anche perché tante raffigurazioni lo dipingono proprio così. Del resto viene spontaneo pensare che una persona che loda con parole serene l’acqua, il fuoco, la madre terra, i prati non potesse che trovarsi in una condizione irenica, di sereno contatto col mondo circostante.
Nulla di più falso. Approfondendo la figura di Francesco si scopre che nel 1224 il santo era affetto da moltissimi problemi fisici. Compose il Cantico quasi cieco, dopo una notte in cui i dolori lo avevano tormentato senza tregua. Una notte in cui però, dice la tradizione, nel dolore più profondo ebbe una visione beatifica.
Mi sono a lungo chiesto come Francesco abbia fatto a scrivere parole così serene in un momento tanto difficile. La risposta me la diede Carla, una ragazza di seconda superiore. Anche Carla era tormentata da diverse problematiche di salute. Doveva passare a letto, al buio, intere giornate. Non riusciva ad avere quella vita che per molti suoi coetanei era scontata. Tuttavia, quando veniva a scuola, si rivelava una persona meravigliosa. Mai un lamento su come stava, mai una recriminazione, mai una scusa. Ce la metteva sempre tutta, si impegnava al massimo, studiava per il piacere di farlo, appassionandosi agli argomenti proposti, riuscendo a calarli nella sua vita. E rideva, rideva sempre: non una risata vuota, ma piena di gioia. La risata di chi sa cogliere quella felicità che dà vita al fondo delle cose; la risata di chi sa che spesso l’ironia, e l’autoironia, sono la nostra salvezza.
Vincente è colui che, dentro i suoi limiti,
Carla era felice. Mi faceva pensare a don Bosco, il fondatore dei Salesiani, che disse al suo allievo Domenico Savio parole mirabili: «La santità consiste nello stare molto allegri». Le preghiere, il volontariato, le meditazioni sono cose fondamentali, ma all’origine di tutto c’è un’apertura di credito alla vita, uno sguardo di gioia sul mondo così com’è e sulle persone. Senza questo sguardo fiducioso e grato iniziare un cammino di fede autenticamente umano è impossibile; per contro, questo sguardo profondo non viene meno neanche nelle difficoltà e nel dolore. È esattamente ciò che San Francesco esprime nel Cantico delle Creature. Ed è ciò che Carla incarnava con la sua stessa esistenza.
Una volta, durante la giornata dello sport della scuola, Carla decise di gareggiare nel salto in lungo. Ero uno degli arbitri. Anche in quel caso ce la mise tutta: fece i primi due salti, piazzandosi all’ultimo posto, ma mettendoci il massimo dell’impegno. Al terzo salto oltrepassò col piede la riga bianca: le dissi che il salto era nullo. Si arrabbiò molto; le sue parole furono per me un grande insegnamento di vita: “Prof, ci tenevo tanto a fare bene anche questo”. Mi commossi, perché Carla con la sua rabbia era riuscita a ricordarmi che il successo nella vita non è solo questione di freddi numeri, ma di cuore e di passione: vincente è colui che, dentro i suoi limiti, ce la mette tutta, non chi si crede un fenomeno superiore agli altri. Per vincere davvero dunque bisogna essere umili, cioè stare con i piedi ben piantati per terra: come Carla e come San Francesco.
Ovviamente ci fu chi non comprese la grandezza di Carla. Ma la vita è così: c’è chi accoglie gli altri nella profondità del loro essere unici e irripetibili e c’è chi punta il dito e giudica. Così, quel giorno, dagli spalti, Carla fu derisa da un gruppo di studenti: non riuscivano a vedere la sua bellezza, si fermavano all’apparenza del suo corpo goffo e meno atletico degli altri. Non riuscivano ad aprire il cuore, preferivano galleggiare nella superficialità del gruppo. Ridevano di lei, ma non sapevano ridere come lei rideva, perché Carla rideva sempre con gioia mentre le loro risate, più forti e sguaiate, erano grigie e piene di noia. Risate tristi. Carla li sentì, ci rimase molto male. Andai subito da lei per confortarla. Lei fece spallucce: «Mi ferisce il loro atteggiamento, prof, ma alla fin fine non mi importa» mi disse. «Si stanno comportando da stupidi, mi fanno quasi compassione. Meglio lasciarli perdere». Non c’era nemmeno un’ombra di odio nelle sue parole, solo una grande tristezza. Certo per sé stessa, ma, incredibilmente, anche per loro. Mi resi conto che Carla, di fatto, li aveva già perdonati; aveva una volta di più incarnato ciò che San Francesco scrive nel Cantico: Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore et sostengo infirmitate et tribulatione.
San Francesco ha vissuto nella logica del dono: secondo lui tutto ciò che riceviamo è un dono immenso da condividere, non un oggetto da possedere. La stessa logica di Carla. E non è un caso che dono e perdono siano strettamente collegati: se tutto è dono, odiare chi non sa accogliere il dono che il mondo e le altre persone sono è del tutto inutile: la punizione è già implicita in questa chiusura. Chi perdona, invece, rivela l’Amore immenso che sta dietro ogni dono. Non solo: chi vive nella logica del dono sa sopportare anche l’infermità e la tribolazione, e non smette di lodare. Perché, anche se le condizioni fisiche impediscono di godere di quel dono, quel dono resta dono per gli altri. Forse per questo san Francesco, cieco e dolorante, riuscì a scrivere queste parole mirabili e a farne dono a ciascuno di noi.