martedì 4 aprile 2023
Siamo di fronte a un disastro mondiale, dell’Est e dell’Ovest, che non avviene per un «grande disegno strategico», ma per il succedersi di circostanze e del prevalere di alcuni approcci
Rileggere le tappe dell'Occidente per capire le origini della guerra

Ansa

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Esce oggi nelle librerie il nuovo libro di Fabrizio Barca, in dialogo con Fulvio Lorefice, "Disuguaglianze e Conflitto, un anno dopo" (Donzelli Editore, pp. 144, euro 9,50), seconda edizione ampliata con un'analisi a tutto campo delle evoluzioni della politica italiana e del contesto internazionale con l'esplosione del conflitto russo-ucraino. Ne pubblichiamo un'anticipazione.


Un paese, l’Ucraina, devastato nelle infrastrutture materiali e immateriali. Un popolo – larga parte di quello ucraino – aggredito, che, come innumerevoli popoli aggrediti nel passato e come scandisce la Carta dell’Onu all’articolo 51, ha diritto ad autotutela e aiuto e che ha visto sinora morire fra 30.000 e 140.000 persone (incredibile l’incertezza delle stime!), che si aggiungono ai morti nella lunga guerra avvenuta nella regione del Donbass. Un altro popolo – gran parte di quello russo – che si ritrova senza volerlo a essere aggressore, per decisione di chi, come in ogni guerra, resta «con le mogli sui letti di lana» (come recitava una canzone raccolta sul campo di guerra della battaglia di Gorizia nella Prima guerra mondiale), e che ha visto sinora morire fra 60.000 e 140.000 persone.

Un’escalation nel riarmo in tutto l’Occidente e nell’Europa, con la svolta storica della Germania che nelle parole del suo cancelliere Scholz mira a essere «la forza armata meglio equipaggiata» d’Europa. Il via libera a investire di nuovo nei fossili a tutte le grandi corporation del mondo. La sconcertante esplosione del Nord Stream 2, il gasdotto sottomarino dalla Russia alla Germania, che ha ridotto per l’Europa la libertà di scelta nell’approvvigionamento, e che, al di là delle polemiche sulla ricostruzione giornalistica dei responsabili, fa da minaccioso eco alle parole pronunziate in conferenza stampa dal presidente Biden il 7 febbraio 2022 di fronte all’accumulo di truppe russe al confine ucraino: «Se la Russia invade l’Ucraina […], noi metteremo fine al Nord Stream 2 […]. Prometto che lo faremo». E in tutto questo l’assoluta incapacità e non volontà di ricercare una via di pace al conflitto. Insomma, siamo di fronte a un vero e proprio disastro mondiale, dell’Est e dell’Ovest, che non avviene per un «grande disegno strategico», ma per il succedersi di circostanze e del prevalere di alcuni approcci su altri, e poi, da un certo punto in poi, di una reazione a catena.

E allora, risalendo i rami, ognuno può scegliere il proprio episodio decisivo. Qualcuno può effettivamente puntare sulla prescienza di Kennan nel reagire alla finalizzazione dell’adesione alla Nato dei primi paesi del blocco ex sovietico – «Un errore tragico. Nessuno stava minacciando nessun altro. Abbiamo preso l’impegno di proteggere una serie di paesi mentre non abbiamo né le risorse né l’intenzione di farlo seriamente», dichiara al «New York Times » nel maggio 1998 – e sostenere che quello è il punto di svolta. Avvicinandosi ai nostri tempi, altri possono concentrarsi sull’insurrezione in Ucraina a inizio 2014 «accompagnata» dagli Usa, che porta a defenestrare il presidente filorusso regolarmente eletto Viktor Janukovyc, immediatamente seguita dall’invasione della Crimea ucraina da parte di Putin. Altri, ancora, possono fare centro sul «bisogno di guerra», sulla retorica nazionalista, del capo della Russia: «È in Crimea che il Principe Vladimiro è stato battezzato prima di portare il cristianesimo alla Rus’ [la matrice dell’odierna Russia, con Kiev come capitale]. […] La Crimea e Sebastopoli hanno per la Russia un’importanza inestimabile […] come il Monte del Tempio a Gerusalemme per i seguaci dell’Islam e dell’ebraismo», dichiara Putin il 4 dicembre di quell’anno. E Lucio Caracciolo (2014) su « Limes» amaramente chiosa: « La Gerusalemme russa si sposterà dove a lui converrà spostarla ». Altri, infine, possono enfatizzare la scelta di Usa e Uk di attuare la tutela o il presidio dell’Ucraina a distanza, riempiendola di armamenti, ma non «seriamente», e dunque lasciando esposto un popolo.

Già procedere così e magari confrontarsi, anche in modo acceso, ma informato e ragionevole, sulle varie letture sarebbe un passo in avanti rispetto alla pessima qualità del dibattito pubblico che ha segnato il nostro paese e altri paesi durante un anno di guerra. In un piccolo libro, Di guerra in guerra, Edgar Morin (2023), ripercorrendo l’isteria, le menzogne e la criminalizzazione del popolo nemico che, assecondate dai media, accompagnano ogni guerra, osserva a un tempo «l’odio diffuso dalla propaganda russa, che tende a […] propagare il mito della nazificazione dell’Ucraina» e «la propaganda di guerra che ci fa odiare la Russia, ammirare incondizionatamente tutto ciò che è ucraino e occultare ogni contesto ». Questo vale ancor più per l’Italia dove, di fronte alla guerra Ucraina, «sono state abolite tutte le basi del discorso pubblico di una democrazia evoluta», come scrive Marco Travaglio (2023) in una fotografia angosciante del nostro paese di fronte alla guerra.

E dunque, bene risalire i rami. Ma nel farlo, anziché concentrarsi su singoli episodi del confronto fra Usa e Russia sull’Ucraina, conviene tornare alla scossa storica prodotta dal fallimento del sistema economico, sociale e politico dell’Urss e dei suoi satelliti e che, come ogni trasformazione, apre diversi scenari. Dopo molti segnali – prima di tutti, già dal 1980 in Polonia, lo straordinario movimento sindacale e politico di Solidarnosc, con un disegno strategico a un tempo libertario e sociale – il momento topico su cui riflettere è allora la svolta riformatrice dell’Urss stessa, con la nomina di Michail Gorbacëv a segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica nel marzo 1985. Partono qui due processi politici, glasnost’ e perestrojka, che prendono di petto assieme il fronte dei diritti civili e quello del modello di organizzazione della produzione e dello scambio e che accelerano la liberazione dei paesi satelliti dall’autoritarismo imperiale sovietico.

Non sono uno studioso di quei processi. Ma ho osservato il modo in cui prima essi, e poi l’intera sequenza di eventi che li ha seguiti, fino alla dissoluzione dell’Urss e al rovesciamento dei regimi autoritari nell’Est Europa, sono stati affrontati dall’Ovest, Usa e Unione europea in testa. E allora mi si lasci proporre per la discussione una semplificazione e sostenere che nell’Ovest si sono fronteggiati due approcci radicalmente diversi nei confronti dell’Est Europa. Essi corrispondono a due visioni diverse del futuro dell’Europa e, più in generale, della società. Toccano ovviamente, in primo luogo l’Unione europea, riflettendone il linguaggio, poiché equivalgono a due distinte interpretazioni, spesso dibattute, della stessa decisione assunta proprio in quegli anni, nel 1988, dopo un lungo stallo, di riprendere il processo verso tale Unione. Ma toccano anche il protagonista più potente, gli Stati Uniti, con le diverse valutazioni del rapporto con l’Est e della stessa Ue.

Potremmo definire questi approcci come federalismo sociale democratico e sperimentale – con l’aggiunta del termine «sperimentale » all’espressione usata da Thomas Piketty – e centralismo nazionale neoliberista, in breve federalismo sociale e centralismo nazionale. È nella vittoria del secondo approccio sul primo che possiamo ricercare una risposta.

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