L’ondata di siccità che anche quest’anno minaccia i campi di mais e le cocomeraie non è un’emergenza. Quanto meno, nel senso che intende il presidente del consorzio irriguo Est Ticino-Villoresi, Alessandro Folli: «Ormai viviamo di emergenze biennali». Prati che ingialliscono, vigne che si accartocciano e le vacche che si rifiutano di fare il latte: questa non è un’emergenza ma la morte annunciata dei raccolti, provocata dal cambiamento climatico ma anche dall’incapacità delle istituzioni di gestire la risorsa idrica in relazione alla meteorologia, come peraltro si è sempre fatto. Folli è uno dei presidenti dei consorzi irrigui e di bonifica che hanno tenuto la loro convention all’Expo, sotto l’egida dell’Anbi, mentre le campagne erano ostaggio di Flegetonte e di Caronte, il Po iniziava a inabissarsi e l’Emilia Romagna deliberava l’assegnazione di un quantitativo straordinario di gasolio agricolo, perché dove l’acqua non arriva da sola devono lavorare le pompe. Giorno e notte, senza requie, in un crescendo di tensione: sarebbe effettivamente un’emergenza, se non avvenisse suppergiù ogni due anni. L'aspetto veramente drammatico del caso siccità (ma, spostandoci in inverno, si potrebbe dire lo stesso per le alluvioni) è invece la frammentazione di informazioni e competenze, ma anche l’ignoranza generale sul contesto in cui si crea il problema. «Ma i cittadini lo sanno - si chiedeva ieri sempre Folli – che il 70% del costo dell’acqua lo pagano gli agricoltori?». Ovviamente non lo sanno; anche a molti politici, però, non dev’essere del tutto chiaro dove conduca quella «assenza di scelte di fondo sul Piano Irriguo Nazionale» che ha denunciato il presidente dell’Associazione nazionale bonifiche italiane, Francesco Vincenzi, agricoltore in quel di Modena. E perché stupirsene? Sappiamo tutto di cucina televisiva e molto di biologico e chilometro zero, ma nulla di minimo deflusso, da cui dipende la vita dei fiumi, e del funzionamento della falda freatica, da cui dipende la nostra esistenza; figurarsi di sommersione e microirrigazione, di difesa integrata e
precision farming... non ci deve sorprendere allora se, al momento di finanziare le opere irrigue lo Stato destina solo un terzo dei fondi disponibili al Centro-Nord, cioè da Roma alle Alpi, quando la sola Lombardia assicura al Paese il 30% della produzione lorda vendibile di cibo. Gli agricoltori sanno bene di scontare un deficit di immagine pubblica, figlio della nostra cultura industriale e postindustriale, ma stanno rendendosi conto che possono uscire dall’angolo proprio grazie all’acqua. È la tesi dell’Anbi: «La globalizzazione ha redistribuito i compiti e a noi ha assegnato quello di produrre cibo e custodire l’ambiente», ha detto il direttore generale dell’associazione nazionale bonifiche italiane, Massimo Gargano, segnando la rotta della convention sul tema 'Il cibo è irriguo'. Si parlava di siccità ma anche di dissesto idrogeologico, che è l’altro aspetto del problema e infatti i consorzi gestiscono sia 181mila chilometri di canali irrigui, che alimentano 3,3 milioni di ettari coltivati, sia lo scolo delle acque su sette milioni di ettari, nonché 754 impianti idrovori, opere di laminazione contro le piene, diecimila chilometri di argini... Non tutta la gestione della risorsa idrica passa attraverso di loro – il settore è un ginepraio di norme e competenze – ma sono i gangli reali del sistema regolatorio dell’acqua pubblica, al punto che l’ex presidente della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli ha escluso esplicitamente un ridimensionamento del loro ruolo nell’ambito della riforma costituzionale, ipotizzandone semmai un rafforzamento «in quanto espressioni di sussidiarietà». A saldare i destini dell’acqua a quelli dell’agricoltura è la conduzione di questi enti, che per statuto sono amministrati dagli utenti, quindi proprio dagli agricoltori: Gargano, prima presidente e ora direttore generale dell’Anbi, viene dalla Coldiretti; prima di lui guidava l’Anbi Arcangelo Lobianco, che della bonomiana ha retto la presidenza più lunga, dopo quella del fondatore. In altre parole, il discorso del 'compito' assegnato dalla globalizzazione al mondo agricolo non ha nulla di messianico, ma inquadra un riposizionamento strategico al termine del quale il 'mestiere' del contadino ci apparirà molto diverso da quello che conosciamo. L’Europa ha già disegnato questo nuovo ruolo attraverso una serie di riforme che hanno spostato parzialmente il finanziamento pubblico dalla difesa dei raccolti – attraverso quote e ammassi – a quella del reddito agricolo, ma in cambio dell’esercizio di funzioni ambientali e sociali. La cosiddetta agricoltura multifunzionale è il 'compito' tratteggiato da Gargano e, diversamente dal sistema degli aiuti diretti che nel dopoguerra ha garantito l’autosufficienza alimentare, l’accesso dell’impresa agricola alle provvidenze della multifunzionalità non discende solo dall’averne titolo ma anche dalla capacità di fare rete con altre aziende e con le istituzioni per partecipare, tra l’altro, a quei programmi di ammodernamento, efficientamento e aumento della sostenibilità del sistema irriguo, rispetto ai quali, secondo Fabrizio De Filippis (Università Roma Tre) e Raffaella Zucaro (Crea) nella Pac 2014-2020 si presentano «notevoli opportunità». Ci sono 'compiti' e soldi per affrontare l’emergenza idrica, se si saprà sfruttare la dimensione multifunzionale della nuova impresa agricola: nel Programma di sviluppo rurale nazionale sono previsti 300 milioni e altri 300 sono in arrivo, ha promesso all’Expo il capo di gabinetto del Mipaaf Angelo Zucchi; senza contare che la gestione delle risorse idriche, ricorda lo studio De Filippis-Zucaro, condiziona anche gli aiuti che vengono tuttora erogati alle imprese per l’attività specificamente agricola. Non sarà comunque una passeggiata, poiché gran parte dei piani di sviluppo rurale debbono ancora essere approvati e l’applicazione della stessa Direttiva quadro sulle acque è in progress, ma anche per la Comunità europea l’efficienza del consumo idrico in agricoltura, che interpella il tema dei costi aziendali, è centrale. Sui modi per raggiungerla il dibattito è invece apertissimo: appena nato, il Consiglio per la ricerca in agricoltura ha già iniziato a lavorare sul ciclo idrico, anche perché il commissario delegato, Michele Pisante, è un esperto di agricoltura conservativa, un sistema di gestione che punta a un uso del suolo che migliori la fertilità e la capacità di ritenzione idrica e salvaguardi la biodiversità. All’Expo, Pisante ha spiegato che per effetto del cambiamento climatico «entro il 2030 anche in Italia il fabbisogno idrico aumenterà e per allora dovremo essere pronti ad aumentare l’efficienza in agricoltura»; che il ruolo degli agricoltori è insostituibile ed «è quanto mai opportuno riconoscere economicamente il loro servizio ecosistemico»; che «le innovazioni sono importanti ma lo sono anche le best practices». Tesi non dissimile da quella di Claudio Gandolfi dell’Università di Milano, che studia i sistemi di efficientamento irriguo ed è convinto che nessuna tecnologia da sola risolverà il problema dell’oro bianco. In questo campo, l’efficienza non è funzione del risparmio: «In alcune zone rinunciare all’irrigazione per sommersione o scorrimento può creare l’illusione di consumare meno acqua, ma così non ricarico la falda freatica ed essa si abbasserà, incrementando i costi di captazione, inaridirò i canali che hanno anche una funzione paesaggistica e lo stesso consumo che prima diluivo nel tempo si accumulerà nei mesi critici, generando picchi e deficit». Insomma, vietato semplificare: la chiave dell’efficienza consiste nella capacità di monitorare e gestire con incentivi e penalizzazioni il miglior utilizzo della risorsa. Quanta strada ci sia ancora da fare lo segnala questo episodio: in seguito alla siccità ricorrente, molti agricoltori si sono dotati di pozzi aziendali che oggi sono migliaia, permettono di automatizzare le operazioni irrigue e in genere sono a norma. Ma se l’obiettivo è una gestione 'efficiente' della risorsa idrica, tutti quei pozzi rappresentano altrettanti 'buchi' nella rete.