Entriamo in un dibattito già molto articolato perché responsabili di due dei settori più 'sensibili' alle tematiche in discussione (invecchiamento e malattie neurologiche/mentali) in uno dei più grandi nosocomi del Paese e anche perché 'educatori' di operatori della sanità che dal disegno di legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento (Dat) in discussione alla Camera (il confronto in Aula riprende domani) saranno fortemente coinvolti sul piano deontologico e professionale. Siamo medici da 40 anni e abbiamo incontrato migliaia di malati e di famiglie, affiancato associazioni, partecipato a entusiasmanti sviluppi della ricerca che hanno portato a vita più lunga e priva di malattie. Possiamo affermare con serenità che delle tante carenze di cui malati e famiglie si lamentano, i temi trattati dal ddl sulle Dat non compaiono come una priorità.
Visto dal terreno di battaglia quotidiano contro la malattia, sembra piuttosto un’esigenza e una priorità identificata da generali che non combattono al fronte. I problemi del fine vita, delle malattie progressive e incurabili, del rapporto tra volontà del malato e deontologia dell’équipe curante sono sempre esistiti e non nascono dai pochi casi che hanno raggiunto i media, spesso con contorno di strumentalizzazione e disinformazione. Sono sempre esistiti e hanno generalmente trovato una composizione rispettosa delle volontà del malato e della sua famiglia, che teneva conto delle condizioni cliniche e delle aspettative, della qualità di vita e della deontologia dell’équipe curante. Questo avveniva nel tempo in cui le fasi ultime della vita si compivano nell’àmbito domestico (la casa, la famiglia) del paziente, complicandosi progressivamente da quando queste sono state delegate alle strutture sanitarie.
Negli anni 70 a noi giovani medici le famiglie – quando non c’erano più margini di cura e guarigione – chiedevano di portare i propri cari a morire a casa, nel proprio letto e tra i propri affetti. Oggi le famiglie non si sentono più di assumere questo dirittodovere e delegano ad altri la gestione di momenti così delicati. Cercare ora di imbrigliare tutte le innumerevoli variabili di questi passaggi attraverso le varie fasi della malattia e dalla vita alla morte in un testo di legge è problema arduo, soprattutto se affrontato con un piglio ideologico che tende a semplificare quel che semplice non è. Nella presente formulazione il testo in discussione in Parlamento andrebbe ad applicarsi non alle poche centinaia di pazienti affetti da gravissime cerebrolesioni acquisite (come nel caso degli stati vegetativi da trauma o anossia-ischemia del cervello) o progressive (come nella Sla) ma a tutti coloro che per patologie di vario tipo sono incapaci di intendere e volere e impossibilitati a nutrirsi per vie naturali. Questo àmbito include centinaia di migliaia di malati: dai cerebropatici infantili ai malati di Alzheimer e Parkinson nelle fasi più avanzate, dai pazienti con uno stroke devastante ai malati psichiatrici più gravi che in una fase transitoria (e curabile) della loro malattia possono avere gravi difficoltà di nutrizione o rifiuto della medesima.
Come poi non ricordare che quello che viene definito 'atto medico' (cioè l’utilizzo di sacche di alimentazione-idratazione somministrate attraverso sonde) viene spessissimo messo in atto più per comodità del caregiver che per reale incapacità del malato a nutrirsi per vie naturali? Ecco che d’incanto lo stesso malato che sino a un attimo prima veniva nutrito e idratato con cucchiaio e bicchiere (e quindi non sottoposto ad 'atto medico') diventa oggetto (ci si passi il termine) di 'atto medico' che può essere interrotto. Nessuno è tornato per testimoniarci come e quanto è stato gradevole trapassare disidratato... C on il ddl nella sua presente formulazione ci saranno infinite diatribe tra componenti della medesima famiglia che riterranno di avere documentato in tempi e modi diversi le volontà del proprio caro, discordanti nel riflettere una più che legittima variabilità di atteggiamento verso le cose della vita.
È per esempio comune esperienza vedere malati che all’ingresso rinunciano a interventi 'salva-vita' come la tracheostomia per respirazione assistita, salvo poi chiedere essi stessi dopo poco di esservisi sottoposti. E cosa dire poi delle continue e inaspettate conquiste della scienza che stravolgono le aspettative di vita e le previsioni di cura (pensate all’epatite rispetto a pochissimi anni orsono)? Come può una persona (anche la più informata) esprimere un parere così vincolante su tutti i possibili scenari che potranno capitare alla propria salute, dall’oncologia alle malattie degenerative, dagli accidenti cardio-cerebro-vascolari alla chirurgia d’emergenza, dalle malattie del metabolismoassorbimento alle infezioni, per non parlare poi dei problemi psicologici e dei disturbi dell’umore? Come può decidere un giudice su argomenti di tale complessità scientifica (ricordiamoci del caso Stamina...)? L’esperienza reale ci dice che ci sarà sempre e comunque un momento – dopo tutte le spiegazioni del caso, dopo tutti gli approfondimenti che oggi il flusso delle informazioni permette di trovare – in cui il malato si affiderà alle scelte e ai progetti di diagnosi e cura dell’équipe curante che lui stesso ha liberamente e coscientemente scelto.
Questa alleanza è una delle molle più formidabili a spingere gli operatori di salute a cercare sempre il meglio in un rapporto che nulla ha a che vedere con rigide formule di presa in carico (e di 'scarico'). Un rapporto che purtroppo viene stravolto se si impone il rispetto di una volontà che può potenzialmente rinunciare alla salvaguardia della salute e della vita. L’ospedale e l’équipe di cura non nascono con queste finalità e non sono semplici esecutori. Così come è concepito il ddl propugna un principio totalmente distorto della relazione tra malato e curanti, principio che non compare in nessuna delle legislazioni persino degli Stati più 'liberisti' che ammettono la liceità dell’eutanasia attiva.
In tanti anni, abbiamo raramente osservato curanti che imponevano a malati senza speranza procedure diagnostiche e terapeutiche invasive, dolorose e inopportune costringendoli a un prolungamento di vita senza prospettiva, non richiesto e non voluto dai medesimi. Abbiamo purtroppo più spesso incontrato l’esatto contrario, perché è molto, molto meno oneroso (da tutti i punti di vista) lasciare che le cose vadano verso una soluzione definitiva senza insistere troppo nel contrastarla, in modo da liberare famiglia e ospedale da un peso ritenuto eccessivo sul piano finanziario e organizzativo. Temiamo che se il ddl viene varato nella sua attuale formulazione quest’aspetto possa aumentare a dismisura, vista la crescente mole di anziani del Paese. Si sta fornendo a tutti gli attori il supporto legale e psicologico per superare l’ultima ed esile barriera eticodeontologica contraria alla cinica e affaristica 'teoria dello scarto' giustamente esecrata da papa Francesco. Viene da esclamare 'siamo tutti uno scarto', a sottolineare che la fase del declino di un organismo non è meno significativa in termini etici – ma anche semplicemente sul piano esistenziale – di quella in cui quell’organismo era pienamente efficiente, efficace e produttivo.
Per tutti, e in particolare per i più giovani, è importante vedere che i tempi della piena efficienza finiscono (talvolta non iniziano mai) e che sono sostituiti da quelli della progressiva fragilità, nel corso dei quali è crescente la necessità di sostegno e di supporto che la società non può e non deve far mancare. Ignorare tutto questo deriva da una visione neoliberista della società in cui produrre comporta avere diritto alla vita e non produrre significa averne molto, molto meno. Pur condividendo alcune delle motivazioni di base del ddl, e lungi dall’essere antiscientifici, non possiamo non sottolinearne i numerosi aspetti critici che renderebbero lo scenario globale della cura e dell’accompagnamento dei malati molto più conflittuale e ingovernabile di quanto non lo sia adesso, non privo dei rischi di vedere reso concreto quello che la legge dello Stato oggi non permette.