Caro direttore,alle donne in ginocchio sono abituata. Le vedo sempre in chiesa. Ma gli uomini, no. Quasi mai. È più raro che si abbassino, che si pieghino. È quasi un luogo comune, un’abitudine calma e taciturna. Ma sabato sera no. Alla veglia per la pace nel mondo, lì nel silenzio di un altare rivestito di bianco, tutto è cambiato. In ginocchio c’erano tanti uomini. E non lo dico con aria soddisfatta, contenta. No, quando sono entrata ho avuto paura. Ho detto «è questo il segnale», il segnale che in guerra stavolta rischiamo di andarci davvero. E mi ha fatto impressione la malinconia, avrei voluto vedere "le solite donne", la solita misericordiosa espressione delle donne in preghiera che, con gli occhi abbracciano il mondo e con la mano frugano nella borsa per cercare il biberon del bambino. Stavolta il bambino è anche con papà, seduto sulla panca della chiesa a pregare e a vedere scorrere la speranza.Sabato sera in ginocchio c’erano tutti. Attorno un misterioso silenzio che non si spezzava. Io non volevo nemmeno entrare. Ero arrabbiata con l’uomo, con quello che si ripete, e che si assomiglia nel male. E forse ero arrabbiata anche con la Chiesa. Avrei voluto che ci proteggesse dall’ipotesi di un nuovo orrendo dolore. E invece mi sembrava tragicamente impotente. C’erano di nuovo il buono e il cattivo, il debole e il potente. Di nuovo, la giustizia, l’ingiustizia. Di nuovo la «guerra umanitaria», di nuovo l’umanità che non vuole la guerra. E poi la Chiesa, che non bada a distinzioni e che vuole la pace, la Chiesa una, la Chiesa sola. Ma che avrebbe anche potuto smettere di starsene in ginocchio, per gridare e basta di come sia insopportabile che per salvaguardare il bene si provochi altro male. Insomma, io non ci volevo credere al silenzio. Avrei voluto sentire voci, avrei voluto camminare per la piazza e chiedere come calmare il dolore. Come dare significato alla paura. Come trovare il coraggio per affrontare un’altra lotta , un’altra notte senza sera, un’altra notte nera... Ma poi, sabato sera, nel silenzio ho trovato molte più parole di quanto in questi giorni me ne avessero dato e me ne continuino a dare le notizie, gli articoli, i fiumi in piena dei discorsi dei potenti. Ho trovato le parole di chi sa che non serve parlare o gridare, o che, quantomeno, non basta, non è sufficiente. Nel silenzio ho trovato le risposte di quella fetta di umanità che non viene mai interpellata.Il mondo corre e crede di avvalersi del sì sottinteso di chi lo vive. Ma non è così. Sabato sera tanta parte del mondo si è fermata, zitta, ad ascoltare chi pregava e digiunava per non mettere fretta ai conflitti, per dare tempo alla pace. E io ho capito la lingua che parlavano le ginocchia piegate degli uomini. Ho capito che, se anche gli uomini della mia terra si sono abbassati, è perché hanno capito anche loro che l’umiltà non è debolezza, ma è coraggio. Vedere la Chiesa gremita di ginocchia in preghiera mi ha fatto pensare a un tappeto che non è mai solo da calpestare, perché sopra all’amore non si passa. Si sosta.Ma è vero: una notte non basta. Oggi continuo a "fare silenzio". Perché se la terra perdesse le voci, se facesse, anche solo per un secondo, a meno dei rumori, delle pulsazioni degli impegni, di tutti gli accidenti, si accorgerebbe di quanto grande sia lo sbaglio che stiamo andando a fare. Perché la storia non si scrive solo con le guerre. Anzi, la guerre la distruggono, o, almeno, distruggono la sua speranza di essere migliore. Di non essere sempre e solo storia, ma, di essere, qualche volta, anche Avvenire.
Alessandra Arini, 19 anni, TrapaniGrazie, cara Alessandra, per questo racconto vivido e un po’ speciale di un sabato sera di ginocchia (anche e soprattutto maschili) piegate e di occhi alzati in risposta alla chiamata pressante e dolce di papa Francesco. Invito semplice ed esigente a pregare e a digiunare perché la pace torni in Siria, e ovunque nel mondo, e perché la guerra, che già riempie la misura della sofferenza e dell’ingiustizia, non dilaghi ancora più rovinosamente. È vero: un giorno non basta, e meno che meno basta una sola sera. La pace è un lavoro, una lenta costruzione, una convinzione scoperta e poco a poco maturata. E non lascia mai tranquilli, perché non è mai solo quello che chiamiamo "pace", e che come "pace" pensiamo e godiamo. Per questo è, e resta, un essenziale e complicato dono che Dio ci fa, e che gli esseri umani debbono a se stessi. Bisogna saperlo capire. E il silenzio aiuta davvero ad ascoltare, a chiedere e a chiedere ancora, sommessamente, fino a che tutto non diventa chiaro. Bisogna essere capaci di accettarlo. E le donne, persino quando sono «arrabbiate», ci riescono quasi sempre prima degli uomini (sarà che del cantiere della vita, della pazienza e dell’infinita grandezza di ciò che sembra insignificante e persino impossibile ne sapete, voi donne, nell’anima e nella vostra stessa carne, ben più di noi).Da uomo che potrebbe esserti padre, ti ringrazio per averci messo a parte del tuo sguardo di diciannovenne sugli sbagli che non possiamo più permetterci e su questo tempo di attesa e d’impegno che dobbiamo onorare.