La paura è una pessima consigliera. E votare non per un progetto, ma in ostaggio delle emozioni (o, peggio, assecondando i peggiori istinti) produce, inevitabilmente, mostri. È quanto, purtroppo, sta accadendo in queste ore nelle Filippine. Se i risultati definitivi confermeranno, come è ormai quasi certo, quelli provvisori, il nuovo presidente sarà Rodrigo Duterte, il sindaco-sceriffo di Davao City, la città più importante della grande isola di Mindanao: un uomo che si proclama alfiere di un partito di centrosinistra, ma che in realtà è l’espressione del peggiore populismo e ha 'risolto' il problema della sicurezza non esitando a ricorrere agli squadroni della morte.Per le Filippine potrebbe, dunque, riaprirsi una stagione drammatica, che riporterà indietro le lancette della storia al lontano 1986. Quell’anno la 'rivoluzione dei rosari' spazzò via la dittatura di Ferdinand Marcos, che aveva imposto la legge marziale. Oggi l’avvento al potere di Duterte fa temere a molti il riproporsi di scenari che si vorrebbero definitivamente archiviati. Senza dimenticare che il figlio di Marcos, Ferdinand junior, è in testa nella corsa alla vicepresidenza e già scalda i motori per il 2022. Il «Trump delle Filippine»: così alcuni media hanno semplicisticamente definito Duterte. Ma l’etichetta è quanto di più grossolano si possa immaginare. Non solo perché – a differenza del tycoon statunitense – Duterte ammette candidamente di non saperne granché di economia, ma soprattutto perché, se davvero verrà eletto, mai e poi mai il nuovo leader dei repubblicani Usa si sognerebbe di pronunciare parole come quelle che il candidato presidente filippino ha scandito di recente in un comizio: «C’è per caso da queste parti un’impresa di pompe funebri? Se no è il momento di metterla in piedi. A procurare i cadaveri ci penso io. I criminali capiscono solo la forza». Non erano battute a effetto: nel corso dei suoi 22 anni di sindaco a Davao, gli attivisti dei gruppi umani hanno calcolato che il prezzo per trasformare la città da luogo malfamato a «metropoli più sicura dell’Asia» sia costata la bellezza di quasi 1.500 omicidi. L’interessato si difende affermando che, in quel modo, la criminalità è stata sostanzialmente debellata. E pazienza se per ottenere il risultato si stato costretto alle maniere forti: lui, Duterte, un pugno giallo lo ha sbandierato senza pudori («contro la droga, la corruzione e la criminalità») come logo nei manifesti elettorali e nei comizi.Il risultato elettorale filippino non può non sollevare domande. Non stiamo parlando del Paese più cattolico dell’Asia? E al posto del cardinale Sin – uno dei protagonisti della ribellione democratica che portò alla caduta di Marcos – non c’è oggi il carismatico cardinale Luis Antonio Tagle, stimato in patria e nel mondo? Com’è possibile, dunque, uno scenario tanto fosco? Il punto è che la giovane democrazia filippina paga ancora un dazio pesantissimo a una concezione semplicistica della politica, secondo la quale, più che il confronto sulle piattaforme ideologiche dei partiti (peraltro dai contorni sfuggenti), conta l’individuazione dell’«uomo della provvidenza» per risolvere i problemi enormi che gravano sul Paese, dalla corruzione alla violenza endemica.I filippini hanno pensato all’«uomo della provvidenza» nel 1998 quando portarono al potere un ex attore, quel Joseph Estrada che venne poi destituito nel 2001 e che oggi è tornato in pista come candidato sindaco a Manila. Di recente hanno votato al Senato un famoso pugile, Manny Pacquiao. Nell’«uomo della provvidenza» avevano sperato, per la verità, anche insediando, nel 2010, il presidente uscente, Benigno Aquino. Questi, prima del voto, ha fatto un ultimo appello, chiedendo agli altri candidati di unirsi per provare a fermare Duterte. Parole cadute nel vuoto. E oggi una sua sinistra profezia – «Non saremo capaci di correre in avanti se facciamo un’inversione a U verso la legge marziale» – rischia purtroppo di avverarsi.