Anche quest’anno la Pentecoste è stata celebrata nella Chiesa di San Francesco a Owo in Nigeria. Ma quest’anno si è proprio 'consumata' in un attentato terroristico che ha mietuto quasi cinquanta vittime tra i fedeli presenti. Il martirio, mai da ricercare direttamente, rappresenta sempre una potente occasione di richiamo al vero senso della Pentecoste non solo per i cristiani, ma anche per chi non è più o non è ancora cristiano, persino per gli stessi persecutori.
Proprio in un momento in cui da più di cento giorni i cristiani di due nazioni, talvolta anche in nome di ideali cristiani, si fanno guerra, il martirio ci ricorda che c’è prima di tutto un solo imperatore da obbedire, «mio Signore, re dei re e imperatore di tutte le nazioni», come diceva Sperato, un martire africano del Secondo secolo. Il gesto subito dalle sorelle e dai fratelli di Owo, prima ancora di ogni parola, parla al cuore di ciascun cristiano («ciascuno sentì parlare nella propria lingua») ripercuotendo l’annuncio di Pentecoste. È la lingua madre capace di essere intesa da tutti i fedeli di Cristo, prima ancora che subentri la Babele delle fazioni e degli interessi politici.
Il sacrificio dei martiri di Pentecoste è annuncio rivolto anche a tutte le donne e gli uomini, comunque credano e la pensino; che si trovano piegati e, in qualche modo, sbilanciati dai colpi bassi della vita. Per chi vive nell’incertezza di aprirsi al dono di una nuova vita, per chi oscilla inquietamente nella ricerca di un equilibrio tra affetti e lavoro, per chi non riesce proprio a ripercorrere con mano ferma il profilo della propria vita, per chi sente con disagio il peso fisico e spirituale della propria umanità, insomma per chi si smarrisce nell’analisi delle proprie condizioni cercando invano una quadra del cerchio del proprio io, leggere la notizia della morte improvvisa di queste persone potrebbe far sussultare.
I martiri ricordano all’uomo di ogni tempo che il senso della vita non arriva come l’esito di un bilancio, come il frutto di un’analisi o come l’esercizio di una quadratura delle curve dell’esistenza. Il senso giunge come un amore vivo a cui vien voglia di donare la vita, vita che poi da un giorno all’altro potrebbe anche esserti chiesta, improvvisamente, in totale libertà e con ciò non sarebbe comunque sprecata, ma pur sempre donata. È a questo amore vivo che richiama l’immagine agonistica della lettera agli Ebrei: «Circondati da tale moltitudine di testimoni, … corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento » (12,1-2). Il martire ha da dire una parola persino nei confronti del nemico che ingiustamente e malvagiamente infierisce. Saltano ancora una volta quei pericolosissimi equilibrismi tra lealismo e giusta difesa, tra sottomissione e vendetta, tra compromesso e rivendicazione, dove di fatto si finisce sempre per accettare il terreno di gioco imposto dalla violenza altrui. Il martire, invece, lascia allo Spirito l’ultima origine di ogni sua iniziativa, sarà lui a disporre della sua vita, spingendolo a tacere e a parlare, a fermare la mano e a intervenire suggerendo una forma che è totalmente umana, ma ultimamente suggerita dall’alto (cf. Mt 10,19-20).
Il martire riconosce nel persecutore un’occasione per confessare la propria fede, una persona per cui pregare, un uomo su cui implorare la misericordia di Dio, l’unico che sa scrutare nell’intimo e ridare vita a ogni uomo. E la storia del cristianesimo, a partire dal centurione romano del Vangelo di Marco, passando per Saulo è costellata di 'nemici' che si riscoprono amici.
Il martirio dei cristiani nigeriani parla oggi la lingua dello Spirito ai cristiani divisi, agli uomini incerti, ai perseguitati e ai persecutori, anime che in vario modo abitano ogni persona, giovane e matura, appartenente a questo tempo travagliato. Ci ricordano che è possibile riscoprire nell’oggi Cristo come «vita della vita» (Giussani), affetto dominante, presenza verso cui tendere lo sguardo, giudice misericordioso dei nostri nemici.