Via da Kabul. Gli italiani se ne sono definitivamente andati. Il Tricolore della nostra missione militare era stato già ammainato, ma forse è soprattutto ora, davanti al massacro dell’aeroporto, sigillo di sangue sul caos generato dalla rapida riconquista dell’Afghanistan da parte dei taleban, che viene da domandarsi: vent’anni laggiù, 53 dei nostri morti, oltre 700 feriti. Ne valeva la pena? Siamo stati a Kabul ospiti delle nostre Forze armate, negli anni scorsi. Altro stile, allora, della Difesa con un giornale come 'Avvenire' che ama la pace e rispetta chi prova a costruirla, ma senza fare sconti a nessuno.
Io in Afghanistan ci andai nella primavera del 2006, da Camp Darby, Pisa, con un C130 dell’Aeronautica. Fragorosissimo, i tappi nelle orecchie, e che gelo in cabina. Uno scalo, 18 ore di volo. Guardavo gli uomini che tornavano in Asia centrale dopo una licenza, del tutto indifferenti a quel viaggioodissea. Non borghesi, popolo: e spesso del Sud. Calabresi o pugliesi forti, severi, le facce dei migranti in America di cent’ anni fa. Poche parole, brevi sorrisi, sguardi assorti: la famiglia, i figli a casa. Uno non parlava mai. Solo una sera, inaspettato, ci raccontò di quando alla scuola crollata di San Giuliano, scavando, aveva estratto un bambino, vivo. Quasi piangeva, nel ricordare. Poi, di nuovo, per quindici giorni restò muto. A Kabul i nostri stavano a Camp Invicta, raggelante ex caserma sovietica. All’alba le ronde uscivano sui mezzi blindati a sorvegliare la inquieta pace della città distrutta, dopo mujaheddin e russi, dalle bombe di Enduring Freedom. Gli sguardi sotto ai caschi attentissimi: ogni auto poteva essere una bomba. Attorno si allargava la miseria di mercatini ambulanti, folle di donne in burqa, sciami di bambini. Dalle strade squarciate si alzava, finissima, una sabbia rossa che offuscava la vista.
La giovane faccia del soldato in cima alla torretta, al ritorno, nel sudore della tensione ne era così coperta che sembrava una statua. Dentro, a Camp Invicta, dalla mensa a mezzogiorno veniva odore di sugo, e la voce di Ligabue ad alto volume. Un crocefisso sul muro, accenti nostri, cordiali, nel rumore di stoviglie e di cucchiai. Profonda Italia dentro un deserto di montagne inaccessibili, di orizzonti infiniti. A Herat, nell’Ovest, gli uomini uscivano dalla caserma che non era ancora giorno, verso i villaggi di montagna. C’era bisogno di pozzi: solo i papaveri crescono senza irrigazione, i rossi campi di papaveri da oppio. Vedo ancora gli sguardi, in quei paesini, la paura come depositata negli occhi: 'Non siete russi?', domandavano, pronti a scappare. 'No, italiani', e allora si tranquillizzavano. Italiani, parevano pensare: ci si può fidare.
A Herat gli italiani avevano costruito parecchie di scuole. Ci entravano per la prima volta le bambine, vestite a festa, meravigliate. Sembrava l’inizio di una storia nuova. Nei mercati, piramidi perfette di arance d’oro, e pentole lucenti, e stoffe a fiori. Guardavo le donne: sotto ai burqa, quanta voglia di pace. Al passaggio dei nostri non vedevo facce ostili. Stupite, piuttosto: come di chi si chiedesse cosa eravamo a fare lì, tanto lontano da casa. Già, che eravamo lì a fare? Senza illusioni gli ufficiali a sera, nel cortile della caserma, bevendo il caffè, dicevano: 'Siamo qui, a tentare'. Missione di pace, ripetevano, è portare la pace dove non c’è, e quindi rischiare. Dopo cena arrivavano ufficiali dei contingenti inglesi e spagnoli. Fulvi capelli da celti, o nerissimi, da discendenti di saraceni. Figli dell’Occidente, pensavo, sentendoli ridere insieme.
Un colonnello-storico italiano una sera ci raccontò la battaglia di Cassino in modo così avvincente, che lo ascoltammo fino alle due. L’orizzonte oltre la caserma, di notte, era completamente nero. L’ultima sera udimmo, lontane, delle esplosioni. I nostri uscirono in perlustrazione: niente. Pareva il fiato di un nemico vicino e segreto. Tre giorni dopo, seppi dall’Italia, un kamikaze uccise le due guardie afghane al portone. Il nemico rialzava la testa. Gli italiani hanno continuato a presidiare le strade e a scavare pozzi. Mai ho visto i bambini, per strada, averne paura. 53 morti, 700 feriti, vent’anni.
Ne è valsa la pena? Un giorno ci portarono sulle colline sopra Kabul. Sopra a una vecchia piscina vuota un alto trampolino di cemento, e, sotto, i ganci cui i taleban appendevano i 'traditori', perché li si vedesse da lontano. Da lontano, quella forma mi era parsa una croce. Lo era – la croce del massacro dell’Afghanistan. Eravamo laggiù, in fondo, perché siamo italiani, e abbiamo ereditato, imparato, dimenticato e reimparato (speriamo, per sempre) una civiltà in cui si rispettano le donne, e non si uccidono e torturano i prigionieri. Non si dà fuoco alle loro case. Abbiamo provato, almeno, a portare laggiù questa pace. Penso all’Occidente del 2021, e mi dispiace che l’Afghanistan, tutti, lo abbiano abbandonato senza pace. (Per quella povera gente mi dispiace, ma anche, in verità, per i miei figli).