Caro direttore,
e come possiamo fare se non possiamo assistere, se non possiamo accompagnare, se non possiamo essere prossimi a chi ha bisogno di noi e magari non può chiedere aiuto? Come possiamo, noi, combattere questa impotenza? Perché di questo si tratta. Di una potenza disinnescata e non più propulsiva di fronte all’epilogo del caso di Vincent Lambert, di fronte alla battaglia compiuta e apparentemente persa. È sicuramente ingiusto che sia finita così. Ingiusto perché ci trovavamo di fronte a una persona, gravemente disabile, ma persona. Non con la P maiuscola, perché la disabilità non è una prerogativa differente, né un fatto privilegiato né di minore valore. È – dovrebbe essere – una componente paritaria della nostra società, a cui dare la stessa importanza.
Ma non è così. La differenza viene sempre fuori. Si dice che la morte prima o poi arriva, si afferma anche che ci si ammala per morire. Beppino Englaro si è sempre espresso, parlando del caso di sua figlia Eluana, contro meccanismi che interrompono il 'processo del morire'. E mi è sempre sembrata una cosa stridente, perché la speranza a cui ci si affida con tutte le nostre forze alla rianimazione è la stessa che viene negata quando poi la rianimazione restituisce una vita alla quale non si è preparati. Ed è per questo che la depressione, che i contrasti nell’ambito familiare deflagrano, i rapporti si incrinano, si prendono strade diverse ed emergono convincimenti differenti, che sono tutto fuorché l’alleanza terapeutica. E non c’è più dialogo.
Ma se la morte è una parte della vita, con Lambert noi non abbiamo interrotto il 'processo del morire', ma il 'processo del vivere'. Una vita differente, alla quale dovremmo essere preparati, formati, per garantirle il sostegno dovuto, il diritto alla ricerca, il nostro impegno legislativo, l’apporto delle associazioni che rappresentano le famiglie, per avere nelle Istituzioni e nel Governo centrale la garanzie necessarie ai bisogni espressi. Garanzie che vengono meno quando casi eccezionali come quelli di Lambert creano dei veri e propri cortocircuiti. Si parla di fine vita, ma in realtà, a pensarci bene, la morte non c’entra. Ed è lei stessa che si sorprende. Non è il suo turno. Non è chiamata. Non tocca a lei. È in panchina distratta, e ancora lì resta.