Quella verità oltre noi stessi
lunedì 27 gennaio 2025

Anche se l’idea può risultare fastidiosa siamo tutti “armati”, tutti potenziali guerrafondai. Abbiamo occhi facili a infiammarsi di rabbia, lingue avvelenate, vocabolari pieni zeppi di ruvidezze. Sta a noi decidere se sparare o chiudere l’arma in un cassetto e magari buttarla via. Ogni volta è un bivio, un incrocio tra strade che vanno in direzioni opposte, un testacoda di dubbi e paure. Perché i nostri occhi sanno viceversa comunicare una dolcezza infinita, la lingua conosce il valore della misericordia, nel vocabolario abbiamo cerchiato in rosso i concetti di fraternità e condivisione. Il Papa lo spiega con chiarezza nel Messaggio per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, diffuso venerdì alla vigilia del Giubileo della Comunicazione: il primo fondamentale passo per costruire una società accogliente, attenta all’ultimo e al bisognoso, è disarmare le parole, lasciare che la vita si racconti senza piegarla ai nostri interessi, non cedere alla tentazione di ridurre la realtà a slogan.
Non a caso nella testimonianza di chi ha subito un’ingiusta detenzione, per esempio i rapiti, la denuncia è sempre la stessa: assieme alle catene le ferite più dure da vincere sono stati i lividi che non si vedono, quelli provocati dagli insulti e dalle frasi che puntano al cuore della tua dignità. La guerra parte da lì, dal ridurre chi hai davanti una “non persona”, buona solo come merce di riscatto. E allora, il contrappasso è prendersi cura dei toni e delle espressioni, tenere sempre conto di chi abbiamo davanti, farsi strumento di pace, mettersi al servizio della sua costruzione. Francesco nel breve discorso di sabato scorso in aula Paolo VI durante l’udienza ai giornalisti e agli operatori dell’informazione ha definito questo impegno «uscire da sé stessi». D’altronde cos’altro è comunicare se non interrogare la realtà e poi condividerla per come l’abbiamo capita? Uno sforzo che se è vero, onesto e coraggioso, fa crescere le persone, le famiglie, la Chiesa. Rende la famiglia umana più umana, per usare un paradosso. Che poi è il senso stesso del mestiere di informare: dare voce al cuore avendone cura, offrire un nome alle malattie del mondo per provare a guarirle, avere la passione, meglio l’ossessione della verità, che è una ma può essere dieci, mille, centomila. Dipende da quali frasi usiamo per trasformarla in post, articolo, video. Lo sappiamo, avverte il Papa, a fare la differenza sono il linguaggio, l’atteggiamento, le immagini che usiamo. C’è un’informazione che «accende la speranza, crea ponti, apre porte» e un’altra divisiva, impegnata a polarizzare le differenze, che volendo solo semplificare la realtà finisce per svuotarla. Di nuovo è una questione di scelta tra due strade, si tratta di decidere da quale parte stare, più ancora che tra i buoni e i cattivi, tra l’ego di chi informa e il lettore, l’ascoltatore, più in generale il fruitore che poi è il riferimento, per certi versi il padrone delle notizie. Compito del comunicatore, infatti, non è gustare in anteprima tutti i piatti, ma studiare gli ingredienti della ricetta e creare le condizioni per un giudizio autonomo, ivi compresa l’onestà di seminare dubbi. Per chi sceglie la narrazione guidata dalla speranza non significa negare il male ma ricordare come pure lo strappo più profondo possa essere ricucito, è, per usare un’espressione del Papa, «vedere le briciole di bene» nascoste anche nelle vicende in apparenza soltanto negative, non rassegnarsi mai al buio della notte. C’è luce anche dentro una storia nera più del nero, avverte Francesco, si tratta di scendere giù giù per trovarla, fino in fondo al cuore dell’uomo. E poi provare a raccontarla. Con passione, con onestà, con parole disarmate.



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