La preoccupazione con la quale tanti osservatori internazionali guardano alla nuova stagione politica che si apre in Italia a seguito del voto del 25 settembre richiede un impegno congiunto delle istituzioni italiane, una risposta saggia e sinceramente 'patriottica' di tutto il sistema Paese a mostrare l’infondatezza di questo allarme. Il meccanismo di questa legge elettorale consente al centrodestra, a fronte di una quota di consensi cospicua ma niente affatto maggioritaria, di ottenere una larga maggioranza dei seggi nelle due Camere. Un esito pienamente legittimo, e non ha senso ora denunciare gli effetti di un sistema di voto che abbiamo usato due volte, effetti ampiamente messi nel conto da tutte le forze politiche. E tuttavia i numeri definitivi di Camera e Senato, abbondanti ma non debordanti, non consentono alla coalizione uscita vincente dal voto di poter fare da sola anche le modifiche costituzionali, essendo lontana la soglia dei due terzi che permette di evitare il referendum confermativo, e non essendo raggiunta peraltro - nemmeno la soglia dei tre quinti che occorre per le nomine negli organismi di garanzia, per le quali servirà un accordo più ampio, oltre i confini del solo centrodestra.
È pienamente legittimo, naturalmente, anche coltivare intenti di modiche costituzionali, ed è comprensibile da parte di un filone di impegno politico – da decenni postfascista e, da anni, postmissino – che non ha partecipato al cosiddetto «Arco Costituzionale», pur avendo percorso poi un lungo cammino che denota condivisione della lettera e dello spirito della Costituzione. Ma questo comporta, ora, la piena accettazione del ruolo dell’Arbitro istituzionale, oggi il presidente Sergio Mattarella, considerando fisiologico, come nello sport, che questi non sia selezionato fra i tifosi della propria 'squadra', perché è il garante di regole che sono di tutti e per tutti. Garante anche agli occhi degli osservatori internazionali sinceramente ma anche ingiustificatamente (almeno fino a prova contraria) preoccupati.
I primi segnali che vengono dai vincitori appaiono positivi: oltre ai toni pacati e alla dichiarata disponibilità al dialogo, c’è la prima mossa concreta, volta a favorire un ordinato passaggio di consegne con il governo precedente nella delicatissima gestione degli adempimenti per arrivare nei tempi al varo di una legge di bilancio che consenta di evitare la sciagura di un esercizio provvisorio. Un atteggiamento che era stato apertamente raccomandato anche dal Capo dello Stato. Il corto circuito però rischia di innescarsi subito dopo se si decidesse di andare avanti nella modifica proprio del ruolo del supremo garante della Costituzione e dell’equilibrio fra i poteri a colpi di maggioranza. I numeri attuali consentirebbero alla maggioranza di utilizzare i seggi ottenuti garantiti dal Rosatellum ai fini della governabilità, anche per portare avanti le modifiche costituzionali. Ma si tratterebbe di un iter molto lungo, ai sensi del’articolo 138. Se si decidesse di andare avanti su questa via, uno dei primi punti del programma di governo dei vincenti, lo si potrebbe fare o cercando un consenso più ampio o fidando nell’esito positivo di un referendum confermativo.
Ma sarebbe, questo ultimo, un vero azzardo. Andare a incidere su un modello convintamente disegnato dai padri costituenti alla luce della deriva autoritaria da cui si era appena usciti richiederebbe una consapevolezza analoga e condivisa nel perseguimento di un modello diverso, senza trascurare l’ipotesi, forse più compatibile con il nostro attuale sistema, di un rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio.
Con la previsione – in ogni caso – di tutta una nuova serie di pesi e contrappesi, per mettere al riparo il nostro Paese da tentazioni autoritarie che non sono solo un retaggio del passato, ma concreta realtà attuale in tanti Paesi del mondo. Procedere da soli nell’iter di modifica, creerebbe invece una situazione anomala sul piano istituzionale, potenzialmente conflittuale fra Palazzo Chigi e Quirinale, con un Capo dello Stato appena rieletto che si troverebbe a interloquire con una maggioranza di governo impegnata di fatto nella sua delegittimazione. Oltre alla correttezza istituzionale, però, ci sono i precedenti a consigliare di muoversi, sulle riforme, con maggiore prudenza, andando oltre le logiche di maggioranza. L’esperienza dei tentativi falliti di Berlusconi (con la riforma federale) e Renzi (nella riforma che introduceva il monocameralismo) insegna che quando una forza di governo pretende di pilotare anche le riforme rischio grosso. Riforme istituzionali, maneggiare con cura, si potrebbe allora dire. Nella consapevolezza che anche attraverso una corretta intesa istituzionale con un Capo dello Stato di provata imparzialità e dotato di un amplissimo consenso, nelle istituzioni come nel Paese, passa l’esame di maturità per questa nuova maggioranza che si ritrova tanti occhi puntati addosso. Non si tratta solo di tener conto del 56% di votanti che non ha scelto questa maggioranza, quanto di saper parlare anche a quel 36% di elettori che a votare non ci sono andati. E allora il primo dovere, a proposito di regole, sarebbe quello di aprire una riflessione su una nuova legge elettorale che consenta al cittadino di tornare protagonista di una vera selezione della classe dirigente.