Quei molti segnali di dialogo sul fronte ucraino che vanno coltivati
venerdì 2 agosto 2024

All’avvicinarsi del - tragicamente simbolico - millesimo giorno di guerra in Ucraina, il fronte bellico e diplomatico registra movimenti importanti. E anche qualche minimo segnale di apertura al dialogo. Mentre in un’intervista ai media francesi il presidente Volodymyr Zelensky tornava a ribadire che la delegazione russa dovrebbe partecipare a una prossima conferenza di pace, erano altri tre presidenti a rubargli la scena internazionale con il maggiore scambio di prigionieri tra Est e Ovest dai tempi della Guerra fredda. Si deve infatti presumere che un accordo così rilevante - comprendente 26 detenuti in sette Paesi, tra i quali il giornalista del “Wall Street Journal” Evan Gershkovich, il marine Paul Whelan, il dissidente Vladimir Kara-Murza e lo 007 russo Vadim Krasikov – sia stato supervisionato e approvato direttamente da Joe Biden e Vladimir Putin, con la mediazione operativa del leader turco Recep Tayyip Erdogan (sempre più ubiquo e ambiguo protagonista delle crisi in corso, dal Medio Oriente all’Europa). Che significato attribuire all’operazione da parte del Cremlino, che si fa di solito pochi scrupoli per suoi agenti imprigionati all’estero, invece teme e cerca di silenziare le poche voci critiche in patria (facile pensare a Navalny)? Si potrebbe pensare che il canale di comunicazione (mai chiuso) tra la Russia e gli Stati Uniti si è riallargato.

Di non molti giorni fa è stata la telefonata del ministro della Difesa Andrei Belousov al suo omologo americano Lloyd J. Austin per chiedere conto di una programmata operazione ucraina, probabilmente oltreconfine, di cui il Pentagono non era a conoscenza e che, nella ricostruzione del “New York Times”, sarebbe quindi stata fermata agendo su Kiev. Adesso l’atteso accordo sui detenuti, il quale però è andato oltre le aspettative per la dimensione e la portata politica. Tutto questo non significa che Putin sia ansioso di trattare una pace giusta; anzi, ha appena ribadito le sue condizioni capestro: totale controllo delle quattro regioni solo parzialmente occupate e Ucraina lontana dalla Nato. Le operazioni sul campo sembrano molto favorevoli a Mosca se si guarda soltanto alla recente avanzata nel Donetsk dove, a un prezzo spaventoso in uomini e mezzi, l’Armata russa sta per cogliere l’obiettivo di tagliare le linee di rifornimento del nemico e di metterlo quindi in forte difficoltà. Ma non bisogna dimenticare che gli ucraini sono riusciti a tamponare l’attacco massiccio a Kharkiv e continuano a colpire in Crimea e sul suolo russo depositi di munizioni, basi aeree e centrali energetiche.

Se il principale problema del Paese che si difende dall’aggressione sta diventando la carenza di soldati da schierare al fronte, è anche vero che in queste ore sono operativi i primi caccia F-16, la promessa di una svolta nel controllo dei cieli e, quindi, la possibilità di ridurre i raid ostili, forse non a caso l’altra notte è partita una delle offensive più massicce da parte di Mosca con droni e missili. Tutto questo a dire come le sorti del conflitto sul campo siano ben lungi dall’essere segnate e che, dunque, per entrambe le parti c’è la consapevolezza che una trattativa non va esclusa se si vuole evitare un dissanguamento ancora lungo e dolorosissimo. Zelensky punta probabilmente a mandare segnali di ragionevolezza a terze parti (dalla Cina all’India) per non mostrarsi arroccato su posizioni che sono senza appoggi nel Sud globale. E a fronte di un’evoluzione negativa nel sostegno alla sua causa dello stesso Occidente. La Germania, tra le principali finanziatrici della resistenza all’invasione, si prepara a dimezzare il suo apporto. E poi si staglia l’incognita Donald Trump, che dal prossimo gennaio potrebbe scompaginare lo scenario attuale. Ma qui le cose si complicano.

Certo, la coppia presidenziale repubblicana (Vance in particolare) ha dato indicazioni apparentemente inequivocabili su una linea isolazionista: il loro elettore medio non è particolarmente preoccupato della libertà di Kiev, e se ne prenderà atto. Non bisogna, tuttavia, ridurre a macchietta una potenziale seconda Amministrazione Trump. Regalare la vittoria a Putin sarebbe molto peggio del ritiro di Biden dall’Afghanistan e avere le truppe di Mosca al confine con la Polonia non è esattamente nell’interesse nazionale americano. Il tycoon potrebbe sì imporre concessioni alla Russia per congelare il conflitto (con danno per Kiev), ma poi sarebbe capace di esercitare un contenimento più duro e “impulsivo” verso il Cremlino, mossa certamente poco gradita dai vertici di quest’ultimo. Ecco allora che, senza farsi troppe illusioni, qualche spiraglio potrebbe offrirsi alla diplomazia in questo frangente complesso e anche confuso. Spiraglio da sfruttare in uno scenario dove i “falchi” sono ancora maggioranza su entrambi i versanti e già fanno calcoli sui rispettivi cedimenti a fine 2025, in vista di un altro anno pieno di battaglie e di distruzioni.

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