Il messaggio era già contenuto sotto traccia negli interventi dei giorni scorsi della nostra diplomazia, a partire dal ministro Terzi. Ma ieri il premier ha voluto metterlo con forza sul tappeto, nel tentativo di sbloccare la vicenda dei marò arrestati in India, in cui finora l’Italia aveva tenuto un profilo cauto. Non permettere che i due militari rientrino presto in Italia potrebbe creare «un pericoloso precedente per le missioni internazionali», in cui sono coinvolti anche soldati indiani. Il carico da 11 è stato poi 'controbilanciato', senza contraddizioni, dalle parole del presidente Napolitano, che ha auspicato un’azione riservata e una politica che eviti rotture con il governo di Delhi. Con il suo omologo Manmohan Singh, Monti ha ribadito che la presenza dei fucilieri sulla petroliera «Enrica Lexie» rientrava in una «una legittima missione internazionale di contrasto alla pirateria» e che si parla di eventi accaduti in acque internazionali, cosicché la giurisdizione rimane di esclusiva pertinenza italiana. Tenere in custodia, sebbene con modalità meno punitive, i militari italiani potrebbe dunque avere ripercussioni che vanno al di là dei rapporti bilaterali tra Roma e Delhi, mettendo «a repentaglio l’efficacia e le capacità operative» di interventi sotto egida Onu, quali sono le operazioni di pace in molte parti del mondo. Nel giorno in cui anche l’Europa ha battuto un colpo, promettendo un’iniziativa diplomatica per una soluzione soddisfacente, 'internazionalizzare' la crisi è una mossa che può essere risolutiva, ma che è anche suscettibile di renderla ancora più simbolica sul piano politico interno indiano. Da una parte, infatti, c’è il complesso e intricato sistema giuridico internazionale, che in generale prevede la responsabilità in capo alla nazione di appartenenza per i militari impegnati sul campo e, per chi l’ha riconosciuta, si aggiunge, in casi di crimini di guerra, la Corte penale. Non a caso, gli Stati Uniti non la riconoscono, per evitare ai propri soldati di finire alla sbarra fuori dai confini patrii. Quindi è interesse dell’intera comunità mondiale e delle istituzioni sovranazionali evitare che i rischi di problemi giudiziari frenino la disponibilità degli Stati a inviare truppe per il peace-keeping (e per inciso l’Italia fornisce migliaia di uomini e garantisce alta qualità di intervento). D’altra parte, non si può dimenticare che la vicenda si svolge nel Kerala – l’autonomia degli Stati della Federazione è reale – dove si gioca una partita nazionalistica in chiave elettorale. Caricare il caso di ulteriori implicazioni superiori potrebbe persino trasformarlo in un braccio di ferro in cui misurare la forza globale di una nazione dalle crescenti ambizioni. Infine, non ha forse giovato l’ambiguità delle versioni iniziali fornite sul caso, quando è sembrato che ufficialmente si avallasse la ricostruzione secondo cui Massimiliano Latorre e Salvatore Girone avrebbero fatto fuoco di avvertimento verso una nave di pirati, diversa da quella dei due poveri pescatori cristiani rimasti uccisi. Il presidente del Consiglio ieri ha parlato di presunto incidente, le cui dinamiche sono ancora tutte da accertare, insistendo però sulla giurisdizione italiana e sul trattamento da assicurare ai nostri due militari. Nello spirito di verità e giustizia che ci piacerebbe caratterizzasse tutte le mosse di entrambe le parti, la proposta di un risarcimento alle famiglie delle vittime, senza essere un’ammissione di colpevolezza (semmai può essersi trattato d’un tragico errore), insieme alla garanzia di collaborazione con la magistratura locale (che vuole dire considerare in Italia il perseguimento delle eventuali responsabilità dei marò) potrebbero stemperare le asprezze del confronto. E aprire la strada a un epilogo onorevole per tutti.