Gentile direttore,
la vicenda di Piermario Morosini mi ha colpito profondamente. Mi è tornata alla memoria una frase di Ippolito Nievo: «Senza un’atmosfera eterna che la circondi, la vita rimane una burla, una risata, un singhiozzo, uno starnuto». Nel mio piccolo penso che a mancarci fondamentalmente sia la compagnia, la consapevolezza di questa «atmosfera eterna». Si è smarrito il senso della parola eternità, confondendo inconsciamente la nostra vita terrena per un qualcosa di totalmente nostro, indiscutibile, "dato" a prescindere e dunque intangibile. Come cozze sullo scoglio, spesso ci attacchiamo caparbiamente e gelosamente alle nostre passioni, alle nostre "cose", con pretese di possesso e immortalità che, però, un evento imprevisto quanto improvviso (come la morte di un calciatore in diretta televisiva) può mandare in crisi in pochi istanti.
Come è vero invece quel che ripete sempre padre Aldo Trento, missionario in Paraguay: io sono Tu che mi fai. Non siamo padroni della nostra esistenza, siamo però padroni di "riempire", e non uso questa parola senza motivo, la nostra esistenza. Si è scritto che fermare il campionato di calcio sarebbe servito «per riflettere», riflettere sul significato di questo tristissimo episodio e non solo. Ma tra pochi giorni le luci della ribalta caleranno e di Piermario si ricorderanno soprattutto, se non unicamente, la sua famiglia, i suoi amici più cari, qualche compagno di squadra. E al cordoglio delle prime ore succederà l’inevitabile necessità di andare avanti. Ritengo che per tutti questa morte può avere un senso, intendo un senso duraturo, a patto che si bandiscano i sentimentalismi (e le dosi massicce di retorica che immancabili hanno annacquato larga parte del ricordo di questo ragazzo) e si cerchi al contrario di immedesimarsi in lui. Morosini se n’è andato a 25 anni, troppo presto, è innegabile. Ma poco più di una settimana fa, durante una pausa del campionato in compagnia della fidanzata, ha lasciato scritto su Twitter: «Una stupenda Pasqua toscana, tra affetti veri, amici, cani, sole, pioggia, ancora sole… Pienezza». Ecco, quanti di noi possono dire di vivere, di stare vivendo, ora, questa "pienezza" di vita?
Matteo Saccone, Forlì
La sua riflessione è molto bella e, infine, anche incalzante, caro amico. Non voglio correre il rischio di aggiungere retorica a parole che lei si è sforzato di rendere nude e vere.
Un’annotazione, però, sì: qualcuno oggi, magari, "scoprirà" che nel sintetico elenco delle cose che lei cita, e che hanno fatto stupenda l’ultima Pasqua di Morosini, non ci sono concetti o rimandi esplicitamente cristiani. E potrebbe dolersene, come un famoso giornalista ha già fatto ieri, non sapendo "perdonare" il prete che ha perdonato i giovani amici d’oratorio i quali hanno intonato due canzoni di Ligabue ("Un giorno di dolore" e "Non è tempo per noi") durante la Messa funebre per Piermario. Colui che pubblicamente (sulle pagine di "Libero") s’è liturgicamente e moralmente indignato col sacerdote (e addirittura con la Chiesa diocesana di Bergamo) è un cristiano impegnato e sensibile come Antonio Socci, che stimo come collega e come padre. Il prete preso di mira è don Luciano Manenti, cioè colui che ha celebrato il rito e, soprattutto, ha aiutato il tutt’altro che famoso Piermario Morosini a crescere da uomo e da credente, e a farlo così bene come abbiamo scoperto soltanto a causa di una morte improvvisa su un campo di calcio. Ad Antonio vorrei dire, fraternamente dire, che chi sa della vita, del dolore, dell’amicizia e della fede come lui sa, sa anche che un’"eccezione alla regola", fatta per puro amore e puro dolore non è uno scandalo e che senza l’amore siamo solo cembali che risuonano. A don Luciano vorrei dare, dare da figlio, un semplice grazie. Gli sono grato proprio come sono grato a tutti i preti – uomini di Dio mai uguali l’uno all’altro, ma tutti segnati dalla stessa Grazia e portatori nelle loro mani benedette e sulle loro povere spalle dello stesso dono – che ho incontrato e conosciuto.
Grazie anche perché sanno vedere, guidare, riconciliare e perdonare anche ciò che troppo spesso noi non sappiamo, né con noi stessi né con gli altri.
Piermario era uno come noi. Nella sua vita – tra umane contraddizioni, che tanti vivono, e tratti di lineare coerenza, che tanti altri cercano e non sempre invano – c’era senso cristiano e un aggancio profondo e vero alla sua comunità, alla sua gente. Era un cattolico semplice, il "Moro", un uomo buono. Uno che crede in Gesù Cristo, e che, magari, ama una canzone di Ligabue o dei Beatles tanto quanto una bella predica in chiesa (o una confessione) che tocca il cuore, mette in moto i pensieri e scomoda la vita. Il "suo" curato bergamasco, anche citando parole rivelatrici dell’anima e della speranza di questo giovane e sfortunato calciatore, parole che abbiamo pubblicato con grande rilievo nella cronaca dei funerali, ci ha aiutato a coglierlo meglio. Il messaggio paterno e caldo del vescovo Francesco Beschi lo ha sottolineato. Bisogna saper ascoltare, per capire davvero. Per guadagnare, poco a poco, «pienezza»...