venerdì 5 dicembre 2008
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Mentre il Paese si appresta a ricordare le sette vittime della ThyssenKrupp (domani sarà il primo anniversario della strage nell’acciaieria torinese), l’annuncio da parte dell’Inail di un dato che segnala una modesta riduzione delle morti bianche nei primi otto mesi di quest’anno rispetto all’analogo periodo del 2007 offre spunti di riflessione sulla complessa problematica della sicurezza sui luoghi di lavoro.Gli infortuni mortali – questo il dato confortante – sono in calo del cinque per cento. Di fronte a tale contrazione sarebbe tuttavia meschina prova di trionfalismo velleitario ritenere che la fase acuta dell’emergenza possa dirsi superata. In Italia di lavoro si muore ancora troppo, più che negli altri Paesi europei; fabbriche e cantieri, cave e officine continuano ad essere teatro di eventi luttuosi, sciagure il più delle volte non addebitabili alla fatalità.Ridurre a zero la mortalità da lavoro è di fatto impossibile perché ogni attività dell’uomo comporta un’alea, e se è vero che grazie ai progressi della scienza e della tecnica il rischio si può contenere, è altrettanto vero che non potrà mai essere eliminato in toto. Detto questo, rimane da valutare se e in che misura possa ritenersi economicamente sviluppato e tecnologicamente avanzato un Paese che registra ogni giorno almeno tre morti bianche, tre vite stroncate, tre famiglie in lutto, private magari dell’unica fonte di sostentamento. La cronaca, tranne che di fronte ai casi di più rilevante gravità, tende a confinare l’infortunio mortale ai margini dell’informazione. Eppure minimizzare o addirittura tacere lo stillicidio di incidenti è il peggior servizio che i media possano rendere al processo di superamento dell’emergenza, un percorso che deve trovare alleati il sindacato (cioè i lavoratori), gli imprenditori, le forze politiche, il legislatore, le agenzie preposte alle verifiche sul campo, ai controlli puntuali dell’osservanza delle norme di sicurezza, in assenza dei quali ogni disposizione di legge o amministrativa è vanificata. Poi, il giorno dopo una nuova tragedia, mille voci si leveranno a chiedere più rigore, nuove leggi e sanzioni tanto pesanti quanto di fatto inapplicabili, e sarà un modo per sgravare la coscienza collettiva scossa da un evento che forse poteva essere evitato con il semplice rispetto di alcune regole elementari di prudenza e l’adozione di comportamenti ispirati alla saggezza del buon padre di famiglia.Questo vale tanto per l’imprenditore quanto per il lavoratore: una sinergia operativa tra le parti finalizzata al raggiungimento del bene reciproco varrà ai fini della sicurezza più di tante disposizioni calate dall’alto e studiate a tavolino da «esperti» che magari non hanno mai messo piede in una fabbrica.La presa di coscienza della fattibilità di un diverso approccio alle tematiche della sicurezza fondato sulla corresponsabilizzazione reciproca (il che non implica alleggerimento dei doveri dell’imprenditore, chiamato semmai a farsi carico di nuovi oneri legati al suo ruolo) si trasformerebbe infine in un tributo di omaggio alla memoria dei sette morti della ThyssenKrupp e di tutti i morti sul lavoro. Per la Thyssen, il rinvio a giudizio dell’amministratore delegato Harald Espenhahn con l’imputazione di omicidio volontario segna una svolta sul terreno della risposta giudiziaria alla piaga delle morti bianche. Ma quando si decide di arrivare alla Corte d’assise si deve anche parallelamente riconoscere che da una strage come quella di Torino escono sconfitti tutti coloro – singoli, enti, agenzie, istituzioni – che dovevano agire prima.
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