Gentile direttore,
in un momento storico in cui il mondo si trova ad affrontare sfide complesse e incombenti, tra cui il cambiamento climatico e numerosi conflitti, dobbiamo ribadire e rafforzare il diritto universale e inalienabile alla tutela della dignità umana. È nostro il dovere di alzare la voce, collettivamente, contro l'intolleranza e l'ostilità, sostenendo invece l'armonia e l’affinità culturale. Nel 2006 è stata lanciata The Co-existence Expedition con il think tank di Copenaghen “Monday Morning”, a fianco di leader mondiali, esperti e politici. Lo scopo era di individuare e dare priorità alle principali sfide che mettono in crisi gli sforzi globali finora fatti per promuovere la convivenza tra culture.
Le principali cinque sfide da affrontare erano l’empowering the powerless (l’emancipazione dei senza voce né potere, ndr), la garanzia della libertà di religione, la creazione di spazi pubblici che favoriscano un clima di convivenza, la garanzia dell'indipendenza del sistema giudiziario e il superamento dell'agenda che conduce a una crescente irrigidimento delle barriere nel mondo. Si tratta di sfide grandi e importanti, oggi più che mai. Purtroppo, anziché promuovere la nostra agenda a favore della convivenza pacifica tra culture, sembra che la retorica del “noi” contro “loro” si sia intensificata, restringendo il già esistente ma limitato spazio di apertura. Il Consiglio d'Europa sottolinea come il diritto di critica e la libertà di espressione non devono «equivalere all'incitamento all'odio religioso» e che chi esercita la propria libertà di espressione ha il dovere e la responsabilità di «evitare per quanto possibile espressioni gratuitamente offensive per gli altri e che non contribuiscano ad alcuna forma di dibattito pubblico». In sintesi, dobbiamo riportare alla luce il concetto di « responsabilità di espressione».
Gli atti di odio verso i gruppi religiosi sono realizzati da coloro che hanno una profonda ignoranza dell'altro e sono intrappolati in meccanismi di colpevolizzazione reciproca, dove uno punta il dito contro l’altro. È necessario, quindi, adottare un approccio che abbia al centro la persona e che si basi su un «scambio culturale e formativo tra pari, che sia inclusivo e fondato sulla fede e sui diritti umani», come sottolineato nel Rapporto dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Invece di temere “l’altro”, dobbiamo diventare collaboratori di umanità. Il focus va posto sulle potenzialità che il dialogo e la cooperazione interreligiosa hanno in quanto strumento di politica estera, avendo come scopo quello di costruire una pace a livello locale, regionale e internazionale. Se inserito all’interno di un contesto aperto alla pacifica risoluzione delle controversie, il dialogo intra e interreligioso può essere il catalizzatore di un nuovo ordine umanitario internazionale.
A tal fine, i governi, i leader religiosi e la società civile devono armonizzare e coordinare le loro politiche. La promozione di politiche basate sull’‘’anti’’ qualcosa o qualcuno ci fa sentire meno sicuri e ci porta a nutrire sentimenti di sospetto, paura e, infine, odio verso l'altro. Paradossalmente, questo si pone in diretto contrasto con le politiche di sicurezza degli Stati e i loro interessi. Dobbiamo quindi accogliere la complessità culturale e puntare alla coesione piuttosto che all'esclusione. È nella e con la solidarietà che la convivenza tra culture diventa un obiettivo realizzabile e alla portata di tutti.
Presidente del Reale Istituto di studi interreligiosi della Giordania