Ogni terremoto si accaparra gli aggettivi e i sinonimi che raccontano di morte e distruzione. Ma questo del Centro Italia aggiunge a tutto il resto un velo di tristezza inesprimibile che quasi rigetta le parole come una forma di insopportabile contaminazione. È forse una vena sottile nel subbuglio che scuote, dal di dentro, il fragile edificio dell’anima, come e più dei fragili fabbricati di pietra. Ma questa quiete amara, che sembra attraversare e posarsi su tutto il resto, viene da lontano e riannoda una trama misteriosamente già dentro di noi: quella di una 'terra madre', una terra di tutti dove la storia ha calcato la mano per imprimere più a fondo e raccogliere in un’area definita (sarebbe beffardo dire oggi 'protetta') i segni comuni della nostra cultura, dell’arte, della fede; di quella forma di civiltà che si staglia dai profili di chiese e conventi, di torri e castelli, con il ricamo delle strade intorno e le rocche e le torri di ognuno dei tanti borghi, come segnalibro di un tempo che ha la data e il marchio dell’eccellenza.
Del gran libro della storia d’Italia, i centri dei crateri di questo terremoto senza tregua, sono ora le pagine lacerate della più ricca tra tutte le antologie dove sono racchiusi i tratti essenziali e costitutivi non solo del nostro Paese, ma di quell’Europa all’altezza di sé che rischia di diventare una nostalgia precoce. Non occorre più ricorrere ai simboli per raccontare di questo declino, perché i crolli e i cumuli di pietre sgretolate rappresentano, dal vivo, il verso drammatico di una verità che ha rotto gli argini e non ha scrupoli di farsi largo e farsi sentire. L’onda lunga del terremoto non risparmia così neppure la pena aggiuntiva di pensare che altre scosse, su altri piani e da altri epicentri, sono da tempo all’opera per mutare, poco alla volta, quel paesaggio dell’anima così genialmente modellato e sul quale è riconoscibile il profilo della nostra identità.
L’Italia dei borghi, pur tra qualche maquillage urbanistico, è da tempo in lotta per restare se stessa, dare una risposta allo spopolamento che, al tempo della globalizzazione, porta all’uscita di scena, a un abbandono che preserva a stento la risorsa della memoria da tramandare: quella stessa che attraverso le generazioni era raccontata, a voce, nelle splendide piazze, che come antiche e inesauribili fucine, raccoglievano e trasformavano gli echi di parole importanti e meno - in vita e cultura vissute. È stato così che è nato, dal Paese dei 'mille campanili', il prodigio di una comunità di storia e di valori che si è vista all’opera, per antica consuetudine e tenace convinzione, anche nel dramma di questi giorni. Nessuna pietra in questi paesi, unici e preziosi agli occhi dell’arte, è stata mai un monumento a sé; e quelle di chiese, basiliche, abbazie e conventi hanno scolpito storie di fede che continuano a segnare la spiritualità di popoli e nazioni.
Epicentro di una civiltà largamente riconosciuta e che svetta con le sue torri e i suoi campanili fin nel cuore della vecchia Europa, il cambio di passo dei tempi nuovi non poteva che farsi avvertire con un’intensità ancora maggiore. Il nuovo mondo globalizzato sembra andare da tutt’altra parte e non accorgersi neppure di questo guscio del quale vede appena la scorza, ma passa oltre alla ricerca di altro. Non può accorgersi che forse sono proprio queste spalle voltate a segnare le proprie battute d’arresto, a dare un perché alle proprie inquietudini, a uno spaesamento che porta a cercare, senza mai trovarle, le piazze del nostro vivere comune.
Proprio la vecchia Europa rischia di diventare la nostra piazza vuota, il luogo di una non-appartenenza, dove le parole non trovano nessuna fucina in grado di trasformarle in qualcos’altro, perché l’unico linguaggio comune, accettato e perciò comprensibile sembra, ormai, quello dei numeri e delle cifre. La tristezza viene da qui, da quest’erosione implacabile e sorda, che si pone come tragico controcanto all’altra tragedia dei paesi che crollano. Cittadini in cerca di una 'casa comune' da una parte, e gente in strada, dall’altra, alla ricerca di un riparo.
Ma entrambi, in diverso modo, sfollati. E però prima di abbandonare la piazza di Norcia, di fronte alle macerie della Basilica, la gente si è inginocchiata a pregare: un atto di fede, ma non solo. Si è ragionato molto, e in profondità da queste pagine, su questo gesto, in questi giorni. Ci si può, infatti, 'inginocchiare' anche davanti alla storia, quando essa è intrisa di umanità. Quando diventa modello. Quando chiama a raccolta il genio, e i geni, dell’arte, della cultura e della fede, per testimoniare che non si è davanti appena a un bel racconto, ma a un’autentica e irripetibile storia di vita. Che va avanti, e che non crolla.