sabato 20 gennaio 2018
Oltre la natura eutanasica della sospensione delle cure
Foto dell'archivio Ansa

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Caro Direttore,

intervengo nel dibattito in corso su Avvenire perché da medico, anestesista-rianimatore per 20 anni e da 11 anni palliativista e direttore di un Hospice, mi sento di dire che il disegno di legge Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, così come è strutturato, presenta molte più ombre che luci e sembra rispondere più a logiche politiche e ideologiche che cliniche e funzionali alle persone sofferenti.

Credo anzi che se si trattasse realmente di garantire il consenso ai trattamenti e di evitare l’accanimento terapeutico non sarebbe proprio necessaria una legge, che tra l’altro non può prevedere tutte le possibili situazioni cliniche in cui ci si può venire a trovare. Infatti basterebbe applicare l’art. 32 della Costituzione ('Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge') e l’art. 16 del codice di deontologia medica ('Procedure diagnostiche e interventi terapeutici non proporzionati') per garantire un corretto rapporto fra curante e curato, per garantire il rispetto dell’autonomia del paziente ed evitare trattamenti non giustificati, non proporzionati e dannosi per il paziente stesso.

È già un dovere di ogni medico, e soprattutto di quei medici che si trovano spesso alle frontiere della medicina, ai confini tra la vita e la morte, decidere, sulla base delle proprie competenze e delle conoscenze scientifiche del momento, e quindi proporre al paziente o al suo nucleo familiare, il trattamento più appropriato, più utile (e quindi non 'futile' per usare una categoria cara alla bioetica anglosassone) alla situazione clinica che si trovano di fronte. Ora questa situazione può essere frutto di una lunga storia di malattia, durante la quale si può pianificare il percorso di cure appropriate, oppure può verificarsi più o meno improvvisamente e le decisioni sono affidate alla valutazione dell’équipe curante, spesso di Pronto soccorso o di rianimazione, che non può prevedere l’esito del soccorso e delle cure, e che deve dedicarsi alla salvaguardia della vita quando ci siano i presupposti clinici perché la terapia intensiva possa avere successo. Del resto chi può dire quante vite sono state salvate dal progresso e dall’affinamento delle tecniche di rianimazione, dai trapianti d’organo e dalle tecniche di supporto vitale, in via di continua evoluzione?

Certo l’applicazione di queste tecniche può anche determinare un’evoluzione 'sfavorevole' che non si conclude con la morte, ma con una disabilità più o meno grave. In tale contesto si pone il problema di decidere volta per volta l’opportunità e la proporzionalità delle cure proposte e applicate, non certo quello di costringere al medico se scegliere tra l’applicare meccanicamente le Dat, negando al paziente interventi salvavita, e il disattendere le Dat, rischiando di essere chiamato a rispondere in caso di esito insoddisfacente. Per quanto riguarda le patologie croniche-evolutive soprattutto neurologiche, così come, pur con una curva di sopravvivenza diversa, più breve, per le malattie tumorali, sarebbe preferibile spostare il piano dalle Dat alle cure palliative.

Il loro sviluppo nel nostro Paese, grazie alla legge 38/2010 'Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore' (questa sì una legge d’avanguardia in Europa!), rappresenta un’ulteriore garanzia per assicurare ai pazienti cure proporzionate, oltre che di evitare accanimenti inutili e gravosi. Il dolore, che fa più paura della morte stessa, può oggi essere sempre decisamente controllato con terapie appropriate e, a fronte di una sofferenza intollerabile, è possibile applicare la sedazione palliativa e rendere gli ultimi giorni di vita più dignitosi.

Credo poi che la parte del disegno di legge sulla nutrizione e l’idratazione artificiali sia fuorviante, perché esistono già linee guida di varie società scientifiche che pongono le indicazioni e i limiti del trattamento sostitutivo. È chiaro, ad esempio, che all’approssimarsi del fine vita, quando anche naturalmente viene meno il bisogno di mangiare e di bere, non ha indicazione un trattamento sostitutivo artificiale. Quando però, nonostante la gravosità della malattia, l’aspettativa di vita è lunga, a volte di anni, la sospensione della nutrizione e dell’idratazione diventerebbe la causa primaria della morte e quindi configurandosi come una forma di eutanasia omissiva o di suicidio assistito, che tutti però dicono non essere oggetto del progetto di legge e che sono anche in contrasto con l’art. 17 del codice di deontologia medica che dice: «Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte».

Non è il definire la nutrizione e l’idratazione artificiali delle «terapie mediche», piuttosto che sostegno vitale, che le rende «cattive» compagne del paziente, così come non lo sono gli strumenti che le veicolano (sondini, cateteri e quant’altro). Piuttosto, come ho già detto, sono la loro proporzionalità, l’utilità, la congruità alle situazioni specifiche di malattia, che vanno valutate caso per caso, così come deve avvenire anche per altre forme di sostegno, come la ventilazione o la dialisi. Lo sviluppo ulteriore delle cure palliative e di una bioetica clinica 'al letto del paziente', con il contributo di Comitati etici non finalizzati solo alla validazione delle sperimentazioni, possono rappresentare una valida alternativa a questo disegno di legge ed un supporto valido ai medici, certamente più della rassicurazione dello stesso disegno di legge di esentarlo 'da responsabilità civile e penale', quasi a volerlo sollevare anche dalla irrinunciabile responsabilità morale. Semmai, è proprio questa preoccupazione del legislatore di mettere al riparo il medico dal codice penale che lascia più dubbi sulla natura eutanasica della sospensione di cure che si vorrebbe autorizzare.

*Anestesista Rianimatore Direttore dell’U.O.C. Hospice e Cure Palliative A.O. S. Carlo Potenza

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