Nel secondo trimestre dell’anno l’Italia è tornata a crescere in modo "robusto", dice l’Istat. Più di Francia e Germania, una volta tanto. Con un incremento addirittura "eccezionale", ancora l’Istituto di statistica, se paragonato però al punto minimo toccato nel 2020, il baratro economico provocato dalla crisi sanitaria. A giugno ha continuato a migliorare pure l’occupazione, con un incremento per giovani, donne, dipendenti, autonomi e tutte le classi d’età. Portandoci così a metà strada dai livelli pre-Covid, visto che ora mancano all’appello circa 470mila persone, dopo averne riviste al lavoro 400mila in cinque mesi.
Di questo passo, con una crescita acquisita per il 2021 vicina al 5%, potremmo tornare già l’anno prossimo dove ci trovavamo prima che il virus infettasse il mondo. E qui sta il problema: l’Italia pre-Covid, diciotto mesi fa, era un Paese che in termini di reddito pro-capite non si era ancora ripreso dal precedente trauma globale, quello iniziato nel 2008 e diventato drammatico per noi nel 2011 con la crisi del debito. Un Paese con una produttività bloccata da vent’anni, una crescita esile quanto una fiamma di candela, un livello di spesa pubblica improduttiva paralizzante. Ma soprattutto un’Italia spaccata in due, con alcune Regioni del Centro-Nord dai parametri economici tedeschi, ben inserite nelle dorsali globali dell’export, e un Mezzogiorno in troppi casi alla deriva. Quei "Pil dello zero virgola" cui ci eravamo ormai rassegnati non sono altro che una media, il pollo di Trilussa che maschera disparità strutturali antiche, e colpevoli di frenare alla fine tutti.
Il rischio che corriamo, quindi, con una ripresa pur robusta ma disomogenea, soprattutto territorialmente, è di ritrovarci alla casella 1 nel giro dell’oca. Un rischio molto concreto, segnalava ieri la Svimez nelle anticipazioni del suo Rapporto annuale: nonostante il 40% delle risorse del Pnrr siano destinate proprio al Sud, alla fine di questo biennio mezza Italia recupererà integralmente il Pil distrutto nel 2020, mentre al Mezzogiorno ne mancherà ancora una fetta, l’1,7%, che si aggiunge peraltro ai 10 punti percentuali persi dalla precedente crisi e mai più riguadagnati.
Ebbene, senza ricucire un tessuto economico e sociale lacerato da mezzo secolo, non riusciremo neanche questa volta a gettare le basi per una crescita sostenibile e duratura, impresa riuscita invece alla Germania con la ex Ddr. Di quella riunificazione Berlino ha beneficiato per vent’anni e continua a farlo tuttora. Insomma; oggi più che mai la "Questione meridionale" è "Questione nazionale".
La stagione che si apre, grazie al Next Generation Eu, mette fortunatamente in secondo piano il tema delle risorse. Accanto alle decine di miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza c’è l’altro Recovery, l’accordo di partenariato che governa la spesa dei Fondi strutturali e che per tre quarti devono essere spesi proprio al Sud. Sono 57 miliardi in sette anni, ai quali va aggiunto il cofinanziamento di Stato e Regioni. Una delle difficoltà incontrate nella stesura del Pnrr italiano è stata ad esempio valutare la ricaduta di tre misure cruciali per lo sviluppo sostenibile – il superbonus per l’edilizia, il piano asili nido e la digitalizzazione del sistema produttivo – delle quali il Meridione intercetta quote di gran lunga inferiori rispetto ad altre aree d’Italia. Il problema, cioè, sta nella capacità di passare dagli stanziamenti teorici alla spesa effettiva per migliorare il contesto economico. Il vero gap, segnala ancora la Svimez, è quello dell’inadeguata ricognizione selettiva in termini di investimenti e quindi di progettazione dimostrata finora dalle classi dirigenti del Sud.
La sfida è pertanto rendere le politiche nazionali generali 'placed-based', tagliate su misura locale, per usare una definizione di Fabrizio Barca. Se i servizi pubblici fossero di qualità migliore, anche le imprese insediate al Sud produrrebbero meglio e a beneficiarne sarebbe l’intero Paese.
Da dove partire allora? Anzitutto dalle tante e sempre più numerose oasi di buona impresa privata (profit e non profit) e buona amministrazione pubblica presenti nel Mezzogiorno. Sorte tutte, non per caso, dove si è fortemente investito nel capitale sociale, favorendo un tessuto di regole e di impegno civile. Sono passati quasi quarant’anni da quando il sociologo americano Robert Putnam iniziò il suo viaggio tra le anse delle nostre istituzioni democratiche, dando poi alle stampe nel 1993 'Making Democracy Work', in italiano 'La tradizione civica delle Regioni Italiane'. Putnam aveva individuato proprio nella struttura sociale e nella cultura politica che rendevano più difficile e addirittura irrazionale la cooperazione e la solidarietà la vera tagliola allo sviluppo del Mezzogiorno. Perché dove il tessuto della collaborazione civile è sfilacciato, i trasferimenti finanziari finiscono per rinsaldare i legami clientelari o per perdersi.
Rispetto ad allora, ci sono oggi centinaia di reti d’impresa, amministrazioni e comunità, al Sud, dove questo circolo vizioso è stato definitivamente spezzato, anche per far fronte all’emergenza sanitaria. Risulta pertanto dirimente, se si vuole davvero sfruttare l’occasione del 'doppio Recovery', che questi capitali sociali siano direttamente coinvolti nella co-progettazione, soprattutto nei settori chiave della sanità, dell’istruzione e dell’inclusione. Solo in un contesto simile, dove le istituzioni formali riescono a incidere sulla pratica politica e amministrativa, anche provvedimenti opportuni come la proroga della de-contribuzione e l’istituzione delle Zone Economiche Speciali potranno aiutare a far crescere il numero delle imprese disposte a scommettere sul Meridione. Ovvero sull’Italia. Per dare sostanza e durata alla ripresa del Paese intero.