Elezione diretta del presidente del Consiglio o del Capo dello Stato? Di fronte alla necessità di intervenire la soluzione migliore guarda a un approccio tra dialogo e pragmatismo - ANSA
Sull’esigenza sono tutti d’accordo: è necessario rendere i governi più stabili per consentire che operino con una prospettiva di lungo periodo. Come è possibile, del resto, non essere d’accordo di fronte alla costatazione che dal 1946 a oggi, in Italia, si sono avuti 68 esecutivi?
Già Alcide De Gasperi aveva avvertito il problema e aveva fatto approvare la legge “truffa”, come la chiamò la Sinistra pensando che le fosse sfavorevole, che attribuiva un premio di maggioranza a chi avesse raggiunto il 50% dei voti. In effetti, il Costituente aveva risentito del timore fondato sulla precedente esperienza totalitaria. Vi si era aggiunta l’incertezza su chi avrebbe avuto la maggioranza negli anni successivi, che aveva indotto nelle forze politica un orientamento di cautela nel definire la forza di un governo che poteva esserle ostile.
È senz’altro vero che quella che molti chiamano la più bella Costituzione del mondo è in realtà molto debole nella parte organizzativa: non solo nel titolo quinto (rapporto Stato Regioni), ma anche nell’assetto degli organi istituzionali. La lettura degli atti della Costituente mostra, ad esempio, che il bicameralismo uguale non era voluto da nessuno: la Dc voleva una seconda Camera corporativa, il Pci voleva il monocameralismo. Nella votazione sul numero delle Camere i laici appoggiarono la Dc; nel modo di comporle si unirono invece al Pci che voleva le Camere espressione della politica e non dei territori o delle professioni. Sui modi per ottenere il risultato della maggiore stabilità le opinioni, come è noto, divergono in modo radicale: si va da piccoli ritocchi al sistema parlamentare, come la “sfiducia costruttiva”, che consente di far cadere un governo solo nominandone un altro, fino all’elezione diretta del capo del governo o del Presidente della Repubblica, con rafforzamento dei loro poteri.
Fanno premio sulle posizioni i retaggi culturali delle forze politiche: la Destra di Fratelli d’Italia, pur avendo certamente ripudiato il passato regime fascista, resta ispirata all’idea del leader forte, in grado di assumere la responsabilità del funzionamento dello Stato con l’investitura che gli viene dall’elezione diretta; la Sinistra risente dell’esperienza passata in posizione di minoranza e fonda sul primato del Parlamento la certezza di poter comunque influire sulle sorti del Paese; il Centro è di per se contrario a una divisione in due del Paese, ma non ha nell’attuale contesto una forza autonoma da esprimere. La Lega accede alla linea di Fratelli d’Italia per avere in cambio l’autonomia differenziata, come se questo tipo di materia possa essere oggetto di scambio.
Si vede subito che la possibilità di arrivare a un ampio consenso delle forze politiche è remota e che anche una apposita Commissione avrebbe buone probabilità di finire come le precedenti (Bozzi, De Mita-Iotti, D’Alema). L’esperienza dimostra che un disegno complessivo di riforma, come fu anche il tentativo di Matteo Renzi, è destinato a fallire: più è ampia la materia oggetto della riforma più “no” si coalizzano contro di essa. Se si vuole trovare una soluzione praticabile si dovrebbe anzitutto evitare di procedere con apriorismi e con la demonizzazione delle posizioni non condivise. Che, ad esempio, il presidenzialismo o comunque l’elezione diretta del Capo dello Stato o del Governo siano antidemocratiche è smentito dalla loro vigenza in Paesi che nessuno considera non democratici. Una serie di costatazioni dovrebbe indurre a un approccio pragmatico. Non vi è un rapporto certo fra le formule e gli esiti che producono: presidenzialismo e semipresidenzialismo possono ad esempio convivere con maggioranze diverse in Parlamento o in uno dei suoi rami con un effetto di blocco nella possibilità di assumere decisioni o con la necessità di ricorrere a soluzioni, come la “coabitation” francese, che contraddicono l’idea posta alla base della elezione diretta.
Al contrario, può avvenire che un assetto istituzionale frammentato possa conseguire risultati difficili che un sistema semplificato stenta a conseguire (è il caso della riforma delle pensioni in Italia e in Francia). Ancora, gli esiti possono essere inversi rispetto a quelli ipotizzati: così il sistema del ballottaggio può produrre un effetto minoritario perché nel secondo turno può realizzarsi la coalizione dei no a chi ha registrato il migliore risultato nel primo; oppure, la previsione di un premio di maggioranza può favorire una minoranza il cui apporto sia determinante per il successo di una coalizione. Altra distanza fra il risultato voluto e quello effettivo si ha con la formula della sfiducia costruttiva che mantiene in vita Governi deboli, senza maggioranza. Infine, un modello voluto da una forza politica può, col tempo, venire a vantaggio di un’altra, come è stato in Francia nella successione di Mitterand a De Gaulle. Da ultimo, la stessa necessità di fare una riforma che porti alla stabilità del governo può essere contraddetta dalla stessa situazione attuale che vede un governo destinato, sembrerebbe, a durare l’intera legislatura. Si vedrà se questa previsione si realizzerà. La difficoltà, probabilmente insormontabile quantomeno in sede referendaria, di realizzare l’autonomia differenziata può determinare esiti diversi.
Il presidenzialismo non è espressione di minore democrazia. Ma nel contesto italiano l’effetto di maggiore stabilità si può ottenere ad esempio con una riforma dei regolamenti parlamentari e della legge elettorale
Nel cercare di individuare una riforma che abbia qualche margine di praticabilità occorre partire dalla consapevolezza che ogni assetto istituzionale implica una più o meno marcata semplificazione nel rapporto con la società, necessaria per consentire la possibilità di decidere. Potrebbe essere, allora, un buon criterio quello di ricercare un risultato accettabile con la minor forzatura possibile rispetto alle caratteristiche dello specifico contesto sociale. La società italiana ha un grado di omogeneità superiore, ad esempio, a quella francese e ciò si riflette sulla rappresentanza politica: non vi sono nel Parlamento italiano la Destra di Le Pen e la Sinistra di Melenchon. Sarebbe quindi molto forzante una soluzione che imponesse al popolo di dividersi in due con una elezione diretta.
Nel contesto italiano l’effetto di maggiore stabilità si può ottenere, piuttosto, con una riforma dei regolamenti parlamentari e della legge elettorale. I regolamenti parlamentari dovrebbero essere meno permissivi nei comportamenti dei parlamentari e nell’assetto dei partiti che oggi a volte si formano dopo le elezioni. Quanto al sistema elettorale sarebbe forse più praticabile un premio di maggioranza che porti a superare il 50% dei seggi la coalizione che abbia ottenuto il maggior numero dei voti raggiungendo un determinato quorum. Se si prevedesse che le coalizioni debbano indicare previamente il candidato Premier, si renderebbe la proposta compatibile con quella espressa dall’attuale maggioranza. Naturalmente anche questa ipotesi ha i suoi punti di debolezza perché le coalizioni indotte dalla legge elettorale potrebbero dissolversi dopo le elezioni. Ma, come si è detto, non esiste una soluzione ottimale e ciascuna ha un elevato grado di opinabilità.