L’approccio volto alla sola riduzione dei danni ambientali ha esiti scontati e porta a una distruzione della natura. È necessario mettere in discussione il modello di sviluppo
Si sono ormai acquietati i commenti ai risultati della Cop26, con una diffusa rilevazione della loro inadeguatezza. La realtà è complessa, ma in genere si è addossata la responsabilità del semi-fallimento ai Paesi in via di sviluppo, alla Cina, all’India e – in parte – agli Stati Uniti, e si è continuato a vivere come prima, con un ritmo frenetico alla ricerca del reddito necessario per consumare sempre di più. Questo approccio è sbagliato per due ragioni, che vengono in genere trattate separatamente, mentre la connessione fra loro è evidente.
La prima ragione sta nell’ingiustizia e, comunque, nella impraticabilità dell’appello che i Paesi sviluppati rivolgono a quelli in crescita a risparmiare nel consumo dei fossili senza compensare in qualche modo l’eventuale minore consumo. La questione resta la stessa che fu al centro dello scontro fra “ricchi” e “poveri” nella prima Conferenza mondiale sull’ambiente e lo sviluppo organizzata dall’Onu a Rio de Janeiro nel 1992. I Paesi poveri sottolineavano il fatto che l’80% dell’inquinamento globale era prodotto dal 20% degli Stati più ricchi. E si dichiaravano disponibili a contenere le emissioni e la deforestazione, ma chiedevano di ricevere in compenso l’1% del Pil dei Paesi ricchi entro una data fissata. Il compromesso si raggiunse con una formula, proposta dai Paesi ricchi, che prevedeva che tale contributo venisse versato «al più presto ». Così non se ne fece nulla e anzi i contributi diminuirono, tanto da essere riproposti nelle successive Conferenze che li hanno quantizzati in (solo) 100 miliardi di dollari. Non essendo stato raggiunto neppure questo obiettivo, esso è stato ribadito di nuovo a Glasgow, fissando la data al 2025.
Sempre a Glasgow, stabilito in via preliminare l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura in 1,5 gradi, si è poi dovuto trattare sugli strumenti necessari per conseguirlo, diminuendoli rispetto a quelli ipotizzati. È quindi ben difficile che l’obiettivo venga raggiunto. Sarebbe tuttavia sbagliato sottovalutare l’importanza degli sforzi che in Scozia, e ancor prima con il G20 di Roma, sono stati fatti per stimolare un approccio multilaterale al problema. Il tema ambientale sfugge a una dimensione solo nazionale: gli effetti degli inquinamenti si determinano anche in località diverse da quelle in cui sono prodotti. La diversità nelle condizioni dei singoli Paesi rende però difficile convenire sugli obiettivi, sulle misure da adottare e sulla tempistica.
La seconda e più importante ragione sta in una profonda inadeguatezza della impostazione di base della Conferenza: si sono individuati gli strumenti per rimuovere le cause immediate dell’inquinamento senza risalire alla causa prima, che determina quelle più immediate. Quello del carbone non è un consumo finale, non soddisfa direttamente un bisogno. Salvo che per una piccola percentuale destinata al riscaldamento, il carbone viene utilizzato per produrre energia destinata alle attività produttive di beni di consumo. È quindi la domanda globale dei beni di consumo, in continua crescita, che determina la necessità di utilizzare combustibili, come il carbone, strumentali alla loro produzione. L’orientamento della Conferenza non è stato rivolto a rimuovere questa causa, ma solo a ricercare strumenti di produzione che determinino un tasso minore di inquinamento e di distruzione di elementi naturali, con una impostazione volta a limitare i danni anziché a eliminarli.
Non c’è dubbio che i rimedi che si stanno apportando siano di particolare importanza: l’economia circolare contribuisce alla riduzione degli scarti, l’agricoltura biologica riduce il consumo del suolo, la produzione di ener- gia con fonti rinnovabili consente la riduzione dell’uso dei fossili, l’utilizzazione di auto elettriche o ibride evita o diminuisce l’uso dei fossili per alimentare la trazione. Tutte queste misure che vedono impegnati anche i governi in politiche di incentivazione, contribuiscono a determinare un minore consumo dell’ambiente e una riduzione del tasso di inquinamento. Una cresciuta sensibilità ambientale nei consumatori e gli importanti investimenti nelle nuove tecnologie fanno sì che l’ambiente non sia più un freno allo sviluppo ma sia diventato, al contrario, il settore che più degli altri ne costituisce un volano. a anche questa nuova e importante impostazione è rivolta, in sostanza, solo a ridurre gli effetti negativi dell’aumento progressivo dei consumi. La stessa idea di “sostenibilità” dello sviluppo, che è di moda e appare come la chiave per risolvere i problemi dell’ambiente, è in realtà quanto meno equivoca perché assume lo sviluppo come valore primario da realizzare con il minore consumo possibile dell’ambiente.
Una diversa, necessariamente più radicale, impostazione che risale alla causa prima del deterioramento dell’ambiente si trova solo nelle indicazioni di valori diversi e fra queste in particolare nell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco. Vi si osserva che «dal momento che il mercato tende a creare un meccanismo consumistico compulsivo per piazzare i suoi prodotti, le persone finiscono con l’essere travolte dal vortice degli acquisti e dalle spese superflue. Il consumismo ossessivo è il riflesso del paradigma tecnoeconomico». In effetti tutta l’economia e il suo sviluppo sono fondati sulla domanda crescente di beni di consumo. Una regressione o anche solo una stasi nella crescita della domanda sono considerate negative e pericolose. In questo periodo in Italia, ad esempio, pur in presenza di un aumento del Pil superiore al 6%, ci si lamenta che i consumi siano ancora ridotti di 35-40 miliardi rispetto al periodo pre-Covid.
Sono poche le ricerche che studiano gli effetti sull’ambiente del consumismo «che abbaglia e paralizza», come ha detto ancora papa Francesco, nell’omelia del 21 novembre scorso, ma poi anche nel viaggio a Cipro e in varie altre occasioni, eppure il fenomeno è di comune osservazione. Ogni famiglia ha in casa una piccola farmacia poco utilizzata, gli elettrodomestici vanno cambiati frequentemente perché sono costruiti con modalità che ne determinano una rapida obsolescenza e i lavori artigianali che si dedicavano alle riparazioni vanno scomparendo, il commercio informatico dà ulteriore stimolo agli acquisti, ogni persona ha un numero di scarpe e di vestiti ben superiore a quello che utilizza, gli scarti alimentari sono valutati in Europa in oltre mezzo chilo a settimana a persona e 1,4 chili negli Usa, l’uso individuale dell’automobile viene considerato una sorta di diritto soggettivo a partire dai 18 anni, nelle abitazioni si lasciano accese molte luci non necessarie, il riscaldamento viene fatto funzionare in una misura che consente di stare poco coperti, anche le festività sono destinate agli acquisti, la festa della povertà (il Natale) viene celebrata con un picco di consumi, il consumo dell’acqua è crescente e viene valutato in Italia in 220 litri al giorno (125 nella Ue). Come si os- serva in un recente saggio (Fausta Speranza, “Il senso della sete”, Ed Infinito 2021) la quantità di acqua disponibile non è infinita e il suo consumo aumenta a ritmi incontrollati: è raddoppiato dal 1960 a oggi ed entro il 2025 si prevede che aumenterà del 50%.
L’orientamento prevalente è rivolto solo a ricercare strumenti di produzione che determinino un tasso minore di inquinamento
Le conclusioni da trarre sono evidenti: se si mantiene nelle politiche ambientali un approccio volto solo alla riduzione dei danni e non si affronta il problema del consumismo, gli esiti sono scontati e consistono in un deterioramento progressivo delle condizioni di vita e nella distruzione della natura a opera dell’uomo. Non è necessario teorizzare la decrescita per auspicare una vita più sobria. Il valore in gioco non sta nella quantità dei consumi, ma nella qualità della vita. Non ci si può però limitare agli auspici: è necessaria anzitutto quella rivoluzione morale e culturale che è indicata nella Laudato si’, i partiti devono smettere di cercare il consenso immediato con il metodo del “chi offre di più”, i governi devono assumere il problema come prioritario e mettere in atto le misure idonee a risolverlo.
Se non ci si vuole accontentare di diminuire il deterioramento ambientale, si deve anzitutto adottare il criterio della “rigenerazione”, ben diverso dalla semplice “sostenibilità”. Occorre incominciare a distinguere le misure che perseguono solo un minore deterioramento, come la produzione e l’uso di auto elettriche, l’economia circolare, alcune forme alternative di produzione di energia... dalle misure che invece innestano un fattore positivo, di rigenerazione, come l’energia prodotta da fonti totalmente rinnovabili, la riforestazione, la pulizia del mare e dei corsi d’acqua, il risanamento del territorio, la rigenerazione urbana. Occorre, ancora, differenziare il costo delle bollette e delle tasse sui rifiuti in termini di progressività. Come si vede, si tratta di iniziare un percorso ancora non ben delineato, individuando le politiche che traducano le grandi intuizioni in misure capaci di concretizzarle.
Giurista, professore emerito nell’Università di Roma Tre